lunedì 18 agosto 2025

Il diritto di essere raccontata: la storia di Ulrika Andersson-Hall e della Svezia alla RWC 2010

Ci sono storie che non si scrivono con l’inchiostro, si scrivono con il vento che soffia prima di una partita. Con il silenzio che precede il primo impatto. Con lo sguardo di una donna che ha sognato un campo da rugby in un paese dove il rugby non si sogna. Questa è la storia di Ulrika Andersson-Hall... E della Svezia, alla Coppa del Mondo femminile del 2010. Una storia che non parla di gloria e di vittorie. Parla di coraggio.

Nel rugby, non sempre si scende in campo sapendo di poter vincere. A volte si scende per resistere. Per dimostrare che si esiste. La Svezia, nel 2010, non aveva nulla da perdere. Non aveva strutture, non aveva storia, non aveva nemmeno un campionato vero. Non aveva stadi gremiti, né titoli da difendere. Aveva solo sogni. E aveva Ulrika. Ulrika Andersson-Hall non era soltanto la mediana di apertura. Era il respiro tattico, la bussola emotiva, la nota giusta in una melodia imperfetta. Aveva 34 anni. E aveva visto il rugby femminile sbocciare in Svezia come un fiore che osa sfidare il gelo. Con pazienza. Con ostinazione.

Nel rugby femminile europeo, a cavallo tra il 2009 e il 2010, c’era un’aria di rivoluzione silenziosa. La Svezia non era una potenza. Non lo era mai stata. Ma in quel torneo di qualificazione, giocato tra le brume di Utrecht e le brezze del Baltico, qualcosa cambiò.

Ulrika Andersson-Hall, capitano e faro, guidava una squadra che sembrava uscita da una ballata nordica: poche risorse, tanta grinta, e un sogno che nessuno aveva il coraggio di pronunciare ad alta voce. Per le sue compagne, Ulrika non era soltanto una giocatrice. Era un simbolo. Una donna che aveva scelto di investire sé stessa in un sogno collettivo. Aveva sacrificato tempo, lavoro, legami, per dare al rugby femminile svedese una possibilità. E quella possibilità, ora, camminava accanto a loro.

Nel rugby, per avanzare bisogna passare la palla all’indietro. È una regola, certo. Ma anche una filosofia. Per capire dove si va, bisogna sapere da dove si viene. E allora, prima di raccontare il Mondiale del 2010, dobbiamo fare un passo indietro. Tornare a Stoccolma, nel maggio del 2009. Perché lì, su quel campo stretto tra il mare e le tribune di legno, si gioca una partita che cambierà tutto. Svezia contro Italia. Una sfida che non è solo punteggio. È identità. È futuro. È il momento in cui la Svezia, squadra silenziosa e ostinata, guadagna il diritto di essere ascoltata.

Stoccolma, 17 maggio 2009. Kristinebergs IP. Un campo che sembra uscito da un romanzo scandinavo: cielo lattiginoso, vento che sussurra storie antiche, e una partita che vale più di quanto dica il punteggio. Svezia contro Italia. Non una semplice sfida, ma una porta d’ingresso al sogno mondialeL’arbitro è francese, Alain Falaise. Fischia l’inizio, e da quel momento, ogni minuto è una battaglia.

Ulrika Andersson-Hall, la capitana svedese, è ovunque. Al 13’, piazza il primo calcio: 3-0. Al 20’, replica. Ma non basta. Al 20’, Charlotta Westin Vines rompe la linea azzurra e va in meta. Kristinebergs esplode. L’Italia reagisce. Paola Zangirolami, al 28’, trova il varco e segna. Veronica Schiavon, glaciale, infila tre piazzati: 23’, 29’, 43’. L’Italia è avanti. Ma al 40’, sul filo del primo tempo, Jennifer Lindholm si infila tra le maglie azzurre e schiaccia oltre la linea. È la meta che cambia tutto.Il secondo tempo è tensione pura. Nessuna segna. Solo placcaggi, mischie, e sguardi che dicono: “non mollare”. Finisce 16-14. La Svezia vince. E quel giorno, in un angolo di Stoccolma, una squadra che nessuno aspettava si guadagna il diritto di esserci.

Il sorteggio mondiale non lascia spazio ai sogni: Francia, Canada, Scozia. Tre nazioni dove il rugby è più di uno sport. È radice, è rito, è orgoglio. La Svezia? Era l’ospite inatteso. L’outsider. Ma non era lì per inchinarsi. Era lì per resistere. Per farsi sentire.

Contro la Francia, le svedesi non crollano. Placcaggi disperati, sacrifici silenziosi, una linea difensiva costruita più con la volontà che con la forza, più con la disperazione che con i muscoli. Ma non basta, come non bastano i tre piazzati di Andersson-Hall. La Francia vince 15-9.

Tocca al Canada. La Svezia gioca con coraggio, ma la furia nordamericana le travolge. Ulrika, anche sotto di trenta punti, non smette di guidare. Di chiamare schemi. Di cercare varchi dove non ce ne sono. Ogni suo calcio è un gesto di sfida. Ogni parola alle compagne, un manifesto di dignità. Non si gioca solo per vincere. Si gioca per affermare la propria esistenza. Per gridare: “Siamo qui. Guardateci. Esistiamo.” Francia. Canada. Due muri. Le svedesi provarono a scalare il primo con il cuore, e si schiantarono contro il secondo con l’anima.

Contro la Scozia, la Svezia mise tre punti sul tabellone. Un calcio piazzato. Un gesto semplice, ma carico di significato. In quel momento, il punteggio diceva che la Svezia non era solo presente. Stava scrivendo la sua storia. Non era una meta. Non era una vittoria. Era un ricordo che non avrebbe più lasciato quel campo. Nel tunnel, prima della partita, le ragazze si tenevano per mano. Non per proteggersi, ma per sentirsi. Per dirsi, senza parlare: “Siamo qui. E questo tempo, comunque vada, è nostro.” Un'altra sconfitta. 32-5. Ultimo posto nel girone, ma si gioca ancora. Ci sono le partite di piazzamento dal 9 al 12 posto.

Settembre comincia con il Galles. Una squadra che nel rugby ci è nata, cresciuta, e ci vive. La Svezia, invece, ci è arrivata. Con fatica e con tanti sogni. Al 13’, Charlotta Westin-Vines sorprende tutti. Meta svedese. Sì, proprio lei. Charlotta. Una delle più giovani. E per un attimo, il tabellone dice 5 a 0 per la Svezia. Poi il Galles si sveglia. Caryl James al 17’. Sioned Harries al 25’. Mellissa Berry al 38’. La valanga rossa si abbatte sulla squadra svedese. Ma Lina Norman, al 34’, piazza un calcio. Tre punti. Alla fine saranno dieci i punti svedesi, contro trentadue gallesi. Ma quel giorno, la Svezia non è solo un punteggio. È volontà. È presenza. È una squadra che, anche sotto di venti, continua a giocare come se fosse pari.

Ultima partita. 5 settembre 2010. Svezia contro Kazakistan. Due squadre che non hanno il rugby nel DNA, ma lo hanno scelto. Al 6’, Lyudmila Sherer segna per il Kazakistan. Al 19’, Anna Yakovleva raddoppia. Dodici a zero. Ma la Svezia non si arrende. Al 31’, Frida Ryberg trova il varco. Meta. Al 39’, Ulrika Andersson-Hall piazza un calcio. Otto punti. E poi… silenzio. Il punteggio non cambia. Dodici a otto. E l'ultima sconfitta. Ma quel giorno, la Svezia ha vinto qualcosa che non si misura. Ha vinto il rispetto. E quando l’arbitro Gabriel Lee, da Hong Kong, fischia la fine, le ragazze svedesi si abbracciano. Non per consolarsi. Ma per dirsi: "Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo scritto la nostra pagina."

Alla fine, quando il fischio chiuse il sipario, Ulrika non abbassò lo sguardo. Lo alzò. Verso le tribune, dove forse c’era una bambina con gli occhi grandi e il cuore che batteva forte mentre sognava di giocare a rugby. Verso un futuro che, fino a quel giorno, non esisteva. Il rugby femminile in Svezia, da quel momento, aveva un volto. Una storia da raccontare. Un esempio. E allora, forse, non è vero che la Svezia perse. Forse, vinse qualcosa di più grande di una partita. Vinse il diritto di essere raccontata.

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