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Rugby femminile: ripartire? Il problema non è quando, ma come... E nessuno ne parla!

DPCM: un acronimo entrato in questi mesi prepotentemente nel nostro vocabolario. Se sono in tanti quelli che aspettavano di sapere cosa sarebbe accaduto nelle festività natalizie, ce ne sono altrettanti/e che avrebbero voluto sapere qualcosa anche sull’attività del rugby “minore”, si minore, perché questo è oggi tutto il rugby dal Top10 in giù. Eppure sia a livello statale che a livello federale per il momento tutto tace. I club? Fanno quello che possono, ma certo non possono muoversi in maniera autonoma. Ad oggi noi sappiamo che il campionato femminile “dovrebbe” ripartire il 24 gennaio, ma la domanda che mi faccio io, non è “quando potremo tornare in campo” ma “come lo faremo?” 

In un mondo ideale tutte le nostre atlete, pur con le mille difficoltà del caso si sono allenate singolarmente, mantenendo una condizione psico-fisica accettabile e sono pronte a riprendere l’attività dove l’avevano lasciata. Appunto, un mondo ideale. Possiamo pensare che questo si avvicini minimamente alla realtà? La risposta è no. Parlo quasi quotidianamente con giocatrici, allenatori, dirigenti, in tutta Italia e sono in tanti quelli che mi hanno raccontato che l’attività in questi mesi è stata totalmente sospesa. 

Lo stesso Andrea Di Giandomenico, in una recente intervista, ha definito il movimento femminile in balia delle onde ed ha affermato senza mezzi termini che la possibilità di allenarsi singolarmente in maniera efficace è un privilegio per chi non ha conti da far quadrare o famiglie da curare. Non tutte possono permettersi di ammalarsi, o di subire una quarantena fiduciaria. So di squadre che negli ultimi due mesi hanno perso un numero enorme di giocatrici (anche fino a 20), so che ci sono squadre che si erano iscritte alla Serie A, ma quando ripartiremo non ci saranno più. Per non parlare delle realtà più piccole, che magari avevano appena iniziato con lo X-Rugby con una decina (spesso meno) di ragazze, dalle quali non arrivano nemmeno più notizie.

Inizio a pensare seriamente che il COVID possa aver causato causato danni irreversibili al percorso di crescita che era stato avviato. Il rugby femminile non è ancora riuscito a ripartire con la stessa intensità che aveva prima della pandemia. Per mesi dopo il ritorno, in campo ed in televisione, del rugby maschile internazionale, c'è stato pochissimo (spesso niente) rugby femminile da guardare in chiaro. In Inghilterra si gioca l'Allianz Premier 15s, in Nuova Zelanda si è giocata la Farah Palmer Cup, pochissimi i test internazionali, tutto fermo in Italia. Quel poco che abbiamo gli appassionati non possono guardarlo in televisione, ci si arrangia tra Facebook e YouTube, spesso con collegamenti amatoriali o pirata, oppure come spesso accade solo con le clip delle mete realizzate condivisi sui social. 

E’ anche vero in tutta onestà che quando su Ladies Rugby Club riusciamo a trovare delle partite e le condividiamo la reazione del nostro pubblico è solitamente piuttosto tiepida. Sono poche le visualizzazioni e le condivisioni e purtroppo (duole dirlo) quasi sempre da appassionati uomini. Le ragazze, giocatrici comprese, guardano pochissimo rugby femminile ad eccezione della nazionale, ma questo è un problema che dovrà/potrà essere affrontato successivamente. Quello che è certo è che il rugby qui da noi ha un disperato bisogno di più tifosi e giocatori, quello femminile ancora di più. Ci servono uomini certo, in campo e fuori, ma soprattutto bambine, ragazze e donne. Una recente ricerca di Sport England mi ha lasciato la sensazione persistente che, nonostante i progressi compiuti dal rugby femminile, e nonostante la migliore copertura, il gioco femminile rimarrà indietro.

Sport England, grazie ad un sondaggio proposto a giocatori e giocatrici, ha scoperto che in Gran Bretagna il "divario di esercizio" tra uomini e donne nel rugby si è espanso durante l'apice della pandemia fino al dieci per cento; le donne a parità di condizioni si sono allenate molto meno degli uomini (spesso per questioni legate a lavoro e famiglia) e per quello che ho potuto verificare la cosa è accaduta anche qui da noi. Questo ci riporta alla preoccupazione che il rugby, come gran parte degli sport femminili, rischia di perdere molte delle giocatrici che compongono la base del movimento dopo un periodo prolungato lontano dai campi.

Il rugby di base è, come la maggior parte delle cose, consentito a vari livelli a seconda di dove vivi e ti alleni, ma le regole qui da noi sono difficili da seguire. In Scozia, è consentito solo l'allenamento singolo con distanziamento, ma non è consentito l'allenamento a gruppi e con contatto, né lo sono le partite amichevoli. In Inghilterra, ci sono sei fasi sulla "road map del ritorno al rugby" della RFU per il gioco della comunità. Al momento, l'Inghilterra è nella fase uno (o "A" come la chiama la RFU) che consente l'allenamento individuale con un'altra persona, mantenendo la distanza fisica e senza condividere le attrezzature. In Galles, le partite di touch rugby all’interno dei club sono state appena approvate dalla WRU, con alcune restrizioni per l'allenamento, inclusi nessun contatto o assembramento. In Irlanda, tutto il rugby al di sotto del livello Elite è sospeso, così come in Francia.

Qui da noi se possibile le cose si fanno ancora più complicate, molte squadre sono vere e proprie franchigie composte da ragazze che vengono da comuni e regioni diverse e che in questo momento pur volendo non potrebbero raggiungere i campi di allenamento che sono ubicati in un comune o una regione diversi da quello di residenza. Come si può pensare di ritornare al gioco tra poco più di un mese, quando ci sono squadre che non lavorano insieme da ottobre? Ci sono squadre che devono riprendere totalmente il contatto, che non hanno più fatto una mischia o un placcaggio da mesi, si può pensare di recuperare tutto in 40 giorni?

Si può pensare di avvicinare qualcuno al gioco in queste condizioni? Per molte ragazze, iniziare un nuovo sport oggi è visto solo come un rischio inutile. Per chi si avvicina al rugby l’idea di una mischia, o placcaggio, o qualsiasi forma di contatto, in un momento in cui la distanza sociale è un dogma, sarebbe più terrificante del solito. Certo, nessun allenatore suggerirebbe seriamente questo tipo di allenamento al momento. Chi allena lo sa, dicembre/gennaio sono mesi delicati, è freddo, piove (e non tutte le giocatrici dopo una pesante giornata di lavoro, hanno sempre la forza e la voglia di andare sul campo, a prendere acqua, freddo e botte), le presenze sono rarefatte in questo periodo, anche se quest’anno le feste natalizie incideranno certamente meno del solito.

In queste condizioni, con poche ragazze sul campo, una condizione atletica da ricostruire ed una condizione psicologica che definire non ottimale è puro eufemismo, come si può pensare riprendere a giocare tra un mese? Eppure tutto tace. Se a queste preoccupazioni aggiungiamo: la percezione netta che suggerisce che le atlete hanno meno probabilità di fare esercizio in un periodo di lockdown parziale o totale che sia, il fatto che molti club sono mandati avanti da volontari, senza nessuna competenza strategica, senza mezzi e che difettano nella comunicazione, rimane un'immagine preoccupante per il rugby femminile a livello di base.

La questione dei numeri è fondamentale, eppure nessuno ne parla. Il fatto è che del problema del reclutamento, quando riusciremo davvero a ripartire, sembrano non interessarsi né la Federazione né tanto meno i club, che certo sono preoccupati, ma la questione si chiude lì. Mi è capitato di chiedere quali progetti e quali mezzi si sono pensati o reputati utili per affrontare la questione, ricevendo nel migliore dei casi qualche risposta di circostanza.

In Italia il rapporto con scuole ed università è frammentario o inesistente in gran parte del territorio e prima di poterci rientrare nelle scuole passerà molto tempo (a scuola ci lavoro e vedo cosa si sta progettando per il futuro in ambito di sport, salute ed educazione motoria). Quali soluzioni si pensa di adottare per poter ovviare a questo? Se il pur flebile rivolo del reclutamento scolastico si secca, dove pensiamo di poterle trovare quelle nuove leve che sono la linfa vitale per il nostro movimento?

Ci sono molti modi in cui i club possono aiutare le donne a tornare al rugby ed a reclutare nuove giocatrici. A mio parere, la cosa migliore che i club possono fare è rendere del tutto chiaro quale sia il loro progetto e come intendono svilupparlo e soprattutto investire sulla formazione. Ovviamente questo richiede: soldi, persone e vision strategica. Siamo sicuri di averne a disposizione? Rispondo io per tanti club. NO.

Abbiamo un bisogno disperato di nuove giocatrici eppure si fa molto poco per poterle trovare. Abbiamo bisogno di poter tornare a giocare in sicurezza, con dei protocolli efficaci, abbiamo bisogno di guardare avanti e di creare progetti di sviluppo che non rimangano cartaccia chiusa in cassetto. Sapere cosa vogliamo fare, trovare le risorse per poterlo fare. Spesso ci lamentiamo della mancanza di mezzi, dando colpa alla Federazione (ed intendiamoci, le sue colpe le ha eccome), ma se non cominciamo a rimboccarci le maniche dal basso, il nostro bellissimo gioco, potrebbe subire una grave involuzione molto prima di quello che pensiamo.


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