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Allenare una squadra di rugby: emozioni sotto forma di elenco

Ogni allenatore sa che a maggio/giugno ogni anno è tempo di bilanci. Che sia la fine di un ciclo o semplicemente di una stagione è il momento di guardare avanti e come nell'essenza più pura del rugby lo devi fare guardando indietro. In fondo come dice Baricco: "il rugby è un gioco da psiche cubista, una guerra paradossale perche’ legata a una regola astuta che vuole le squadre avanzare sotto la clausola di far volare il pallone solo all’indietro, movimento e contromovimento, avanti e indietro, solo certi pesci, e nella fantasia, si muovono cosi".

La mia stagione è finita e sono piuttosto soddisfato di quello che ho fatto sul campo con i ragazzi, ma mi ritrovo spesso a tornare ai successi e ai fallimenti che mi hanno accompagnato lungo tutta la stagione e se guardo bene il mio sguardo corre ancora più lontano. E' bello prendersi questo tempo e riflettere su come è andato tutto, anche se ci sono cose che magari ti lasciano ancora un po' di magone. Ma "ehi!" questo è il mestiere dell'allenatore, alla fine l'ho scelto io. È molto difficile cercare di catturare tutte le emozioni, le frustrazioni, le gioie e le difficoltà in un post, mentre provo a farlo, decido che lo farò nel modo migliore e più semplice possibile per descrivere le emozioni del campo: una sorta di elenco.

Alla fine della stagione guardare avanti non è mai semplice, in fin dei conti in Italia il rugby si fa per passione ed il vuoto che c'è senza partite o senza un progetto interessante, senza la soddisfazione di aver realizzato ciò che è stato fatto sul campo può essere molto difficile da gestire. Da una parte c'è il sollievo di non avere più la pressione del risultato, i tanti problemi da risolvere, la necessità di guadagnarsi la fiducia per ogni singola parola pronunciata in allenamento e in partita o il disagio quando bisogna ammettere davanti a se stessi di non essere stati abbastanza bravi. Dall'altra il ricordo della gioia di una vittoria, che fa il pari con quella di essere parte della storia di un club e di quella comunità; la consapevolezza di aver dedicato il mio tempo a questo, agli allenamenti e alle trasferte a preparare ogni singolo aspetto della partita, a costruire il gioco e che questo bene o male ha portato dei risultati. 

La sfiducia si è trasformata in fiducia quando il progetto di gioco ha effettivamente funzionato:  grazie ai miei collaboratori, ai giocatori e in passato alle giocatrici, che oggi pur in modi diversi, sono ancora con me, anche se non tutti. Allenare significa anche avere la consapevolezza che a qualcuno non piacerai, che forse in futuro quando ti vedrà fingerà di non riconoscerti, è parte del processo, la parte peggiore, ma fa parte del pacchetto. La gioia che provi quando vedi che i giocatori vanno in campo e la squadra va avanti è un motivo sufficiente per superare quel tipo di delusione. L'orgoglio che c'è quando vedi crescere l'autostima di qualcuno paga la stanchezza e tutto il lavoro emotivo, strategico e fisico che ci mettiamo. Il compiacimento quando la tua strategia funziona ti permette di compensare quel sentimento adulto di controllo che deriva dal notare quando quello che fai non ti serve più, o non serve più alla squadra, e dall'essere in grado di lasciare andare un'idea, un progetto o anche la squadra stessa, perchè quel momento arriverà. Alla fine c'è sempre il conforto del sapere che abbiamo fatto del nostro meglio insieme alla soddisfazione che si prova nel raggiungere i nostri obiettivi. Se non basta, devi imparare a farlo bastare. Essendo una persona che non è troppo capace di gestire fino in fondo le emozioni delle persone sul campo (le mie comprese), questo mi colpisce e di fronte a tutto questo, la domanda che torno spesso a farmi è semplice: "perchè lo faccio?". Le risposte sono tante e troppo poche nel contempo, ma proverò a metterle in ordine.

1. Amici e amiche, compagni di squadra, famiglia prescelta, ragazzi e ragazze con i quali impari a lavorare dopo un inizio difficile, tutte le persone che incontri. So che questo inizia a sembrare qualcosa di molto diverso da quello che si intende per "allenare una squadra di rugby", ma ho imparato che non lo è. Gran parte della mia comunità è arrivata nella mia vita attraverso il rugby. Non ho amato tutti e tutte a prima vista, alcuni li ho amati moltissimo, altri meno, il bello è stato incontrare sul campo tantissimi tipi di persone, specialmente giocatori e giocatrici e dovermici confrontare, credetemi questo serve tantissimo, ottieni tutti i tipi di situazione che altrimenti non avresti mai vissuto. Conoscere completamente le persone è una delle cose che non riesci a fare spesso nella vita quotidiana e coinvolgere le persone nelle tue idee o anche solo nel tuo modo di vedere le cose sul campo è sorprendentemente fantastico. Ed è anche una questione fisica: vedere le persone diventare più coraggiose, più forti e più intelligenti dà fiducia in se stessi. A volte vedi qualcosa di grande che si sblocca nella testa dei giocatori quando riescono a capire ciò che vuoi trasmettere loro. Penso che appartenere ad una comunità come una squadra sia una cosa fantastica e che attualmente non essere parte della comunità italiana del rugby femminile sia lo cosa che mi manca di più. 

2. Momenti e ricordi. Ciò che condividi con i tuoi giocatori o giocatrici, in quegli spogliatoi freddi e talvolta angusti e casuali, su campi strani che l'erba non la ricordano nemmeno più, sull'autobus, o in club house davanti a una birra, tutte le canzoni che impari, le prese in giro, fatte e subite è qualcosa che resterà sempre dentro di te, diventerà parte integrante di quello che sei. Non sono mai stato un fan dei discorsi prepartita, ma non sono nemmeno riuscito a trovare nient'altro che ti dia la stessa adrenalina del momento prima di entrare in campo per giocare una partita. Tutto l'apprendimento e la fiducia in se stessi acquisiti, sapere di avere una visione e riuscire a portarla a termine è qualcosa che ti permette di essere la versione migliore di te stesso, un uomo migliore, prima che un buon allenatore. Quando riesci ad avere fiducia in te stesso e nel lavoro che hai svolto, anche nei momenti difficili (incerti o contrastanti), riesci a superare quei dubbi che sono il pane quotidiano di un allenatore ed è decisamente una bella sensazione. Vedere tutto questo in prospettiva è piuttosto gratificante. 

3. Per il rugby in sé, semplicemente perchè è il gioco che mi piace di più. Il rugby è un gioco abbastanza interessante, c'è molto da fare in campo e diverse situazioni con cui lavorare. Mi è sempre piaciuto vedere questo processo in continua evoluzione, ma ovviamente lo svantaggio è che non sarà mai finito. Per me la cosa migliore è quando inizio a vedere le persone fare delle scelte autonome in campo e la strategia immaginata trasformarsi e diventare veri e propri movimenti di gioco, portate, placcaggi, contesa della palla. Nel rugby il coaching ti costringerà a pensare le cose nel suo complesso e a dover considerare e valutare in maniera immediata tutti i sette milioni di aspetti del lavoro di squadra... Insomma un lavoraccio!

4. Abitudini. Alleno ormai da tanti anni, ma posso affermare con certezza che il periodo del Covid è stato certamente il più duro della mia carriera. Mi ha mostrato cosa manca se non riesci ad a stare sul campo con i tuoi giocatori o giocatrici un paio di volte a settimana: ti manca quella sensazione impareggiabile di persone che si riuniscono per fare la stessa cosa insieme sul campo e poi tornano a casa, alle loro vite, con qualcosa che tu hai lasciato loro. A volte si ride e a volte no, ma non importa perché ci sarà un nuovo allenamento la settimana successiva e un obiettivo condiviso. Nessuna energia è più pura di questa.

5. Le vittorie e non si parla mai di punteggio. Ho sempre cominciato da zero, mi dicono che non me la cavo male a costruire e formare, grassroot rugby o come dice ottimamente Enrica Quaglio in uno dei suoi scritti sul coaching: un buon sarto. Mi chiedo se riuscirò mai a diventare uno stilista, uno di quelli che gioca per vincere davvero. Se guardo a tutte le mie esperienze, ultima inclusa, i problemi sono sempre gli stessi (nelle squadre femminili spesso sono amplificati) mancanza di giocatori, poco coinvolgimento, poca azione fuori dal campo e il club che funzionava con il minimo sforzo possibile, il che quando lavori con una seconda squadra diventa spesso un navigare di conserva, perchè l'attenzione o le risorse non sono mai divisi equamente è una regola che impari ad accettare presto. Ma c'è quella scintilla che ti ha sempre accompagnato insieme alla squadra la squadra nei momenti difficili che non ti permette di mollare e nemmeno di lamentarti. Sai che funziona così e tanto basta. Venirne fuori in qualche modo è la vittoria più grande che posso immaginare. 

Se cominci con 15 giocatori e finisci con 30 puoi anche non aver segnato un punto in campionato, alla fine hai comunque vinto tu. Pazienza se non tutti se ne accorgono o danno il giusto valore a questo. Negli ultimi 4 anni le squadre che ho allenato hanno raddoppiato il numero dei giocatori e delle giocatrici quando le ho lasciate; con le ragazze abbiamo vinto la prima partita in cinque anni (e poi altre ancora): con i ragazzi abbiamo costruito un percorso comune con le squadre junior, in entrambe ho ed ho lasciato allenatori formati che sono diventati indipendenti; con le ragazze abbiamo giocato la finale di coppa; con i ragazzi siamo partiti in pratica senza una mischia e la nostra mischia è diventata stabile e il gioco è cresciuto. Non ho fatto io tutto questo ma ne ho fatto parte e questo mi rende felice.

6. Allenare te stesso. Se vuoi essere un buon allenatore devi essere in grado di allenare la persona che sei, con la personalità che hai. Deve essere uno dei tuoi più grandi punti di forza e la squadra deve avere fiducia in questo processo. Non puoi andare contro te stesso o ti logorerai e non lo dico per dire, ma come qualcosa in cui credo veramente e che ho vissuto. Ovviamente devi essere in grado di crescere e accogliere il feedback e anche mandare giù qualche boccone amaro. Se mi guardo indietro so benissimo di avere ancora un sacco di strada da fare, ma so anche di essere cresciuto come allenatore ed aver capito come andare nella stessa direzione delle squadre che ho allenato. Sono però abbastanza onesto da riconoscere che non sempre ci sono riuscito, ma ho imparato che è la motivazione prima della forza e la ragione prima delle regole che ti danno una direzione da seguire.

7. Oltre i giocatori. La nostra comprensione di una squadra va oltre i soli giocatori. Anche noi come allenatori vogliamo far parte della squadra con il nostro modo di allenare. Il mio obiettivo più grande è rendere lo spogliatoio uno spazio sicuro. Creare spazi e ambienti sicuri significa che devi accettare quelle discussioni che ci saranno e sapere a cosa stai mirando o di cosa vuoi sbarazzarti. Devi condividere i tuoi valori con il club e con la squadra, lavorare sempre per essere rispettoso di quello che ogni giocatore o giocatrice rappresenta. Nel creare sicurezza, stabilire i confini è difficile. Devi lavorare duramente per ascoltare i giocatori cercando di mantenere i tuoi limiti. Non ti dirò mai che lo sviluppo avviene solo al di fuori della tua zona di comfort. Perché credo che lo sviluppo avvenga quando appartieni alla squadra, ti senti sicuro e hai un obiettivo per cui lavorare.

8. La visione. Non ho seguito alcun corso sul coaching, quindi non ho la teoria a sostegno delle cose. Ho imparato che fidarsi dell'istinto e dei giocatori funziona bene. Molto di questo è passato attraverso l’insicurezza, ma ha portato allo sviluppo. Non avevo una visione quando ho iniziato, o almeno non l'ho mai scritta. Ma ne so di più, quindi eccola qui: voglio che le persone capiscano perché e poi decidano come, invece di stabilire regole per ogni cosa. Questo non è il modo più semplice e soprattutto non in una squadra dove hai giocatori con esperienza e giocatori e giocatrici che hanno raggiunto a malapena i 20 anni, ma penso anche che questo sia l’unico modo per ottenere uno sviluppo più autonomo e completo dei giocatori.

Capire il perché: una cosa importante per me e chiedo spesso ai miei giocatori il perché di quello che fanno sul campo. E questi perché sono neutri: "perché hai scelto questa giocata invece dell'altra? Per favore, fammi capire." Mai essere aggressivo: "penso che non sia stata una buona scelta, perché non ha funzionato. Dovresti provare a fare quello che ti ho detto e vedere se funziona". Ci è voluto del tempo per imparare. Voglio che le persone commettano errori e sappiano che possono commetterli e poi partire da lì e risolverli. Ciò ha a che fare anche con un ambiente di gioco sicuro. Voglio che le persone si divertano o si sentano realizzate, a modo loro, perché altrimenti non avrebbe senso avere un hobby come questo. E una cosa importante è prendersi del tempo libero dal rugby e stabilire dei limiti quando ne hai bisogno. Per questo serve avere qualcuno che ti sostenga in quei momenti e qui arriva il punto sul supporto tra pari: quando si tratta di risorse, penso che avere il supporto tra pari in un club sia la cosa più importante di tutte le altre.

"Il prossimo passo è sempre il più difficile, ma devi farlo guardando avanti."

Come ogni allenatore ho degli obiettivi ed anche delle ambizioni. Spesso centro i primi, ma non soddisfo le seconde. E' qui che le cose si fanno difficili, quando guardi chi hai lasciato e devi sederti, sostenere e festeggiare e non puoi fare altro, nemmeno se le tue ambizioni sono state soddisfatte da chi è arrivato dopo di te. Devi sederti, sostenere e festeggiare, non cercare di analizzare, prendere indicazioni temporali, provare a identificare caratteristiche del gioco che portano a determinate situazioni sul campo. Non provare di identificare i punti di forza e di debolezza o a pensare ai migliori piani di gioco, analizzare quali strutture sono deboli o vedere quali giocatori/giocatrici leggono il gioco allo stesso modo che avevano sviluppato quando c'eri tu. Devi essere felice di quello che hai fatto, devi sederti, guardare e festeggiare. Mi piacerebbe che la mie squadre sapessero che sono qui per loro, farò il tifo a bordo campo e seguirò con attenzione dove porteranno la partita.

Mi sono reso conto che a un certo punto avevo dato per scontato che qualcosa sarebbe venuto fuori nel mio essere allenatore: avrei vinto campionati, formato atleti da nazionale, scritto la storia dei club. E qualcosa di questo è successo e potrebbe ancora succedere, ma devo ricordarmi che bisogna lavorarci sodo senza la certezza di avere qualcosa in cambio. Quindi quando arrivo alla fine della stagione, faccio un bilancio di quello che ho fatto e mi chiedo cosa vorrei fare il prossimo anno, dico semplicemente che non lo so, ma di una cosa sono certo, ci vedremo da qualche parte sul campo.

                                                                                                                      

                                                                                                                          Lorenzo Cirri


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