"Hola Burdell!" e "Buon Rugby a Tutti". Con questi saluti iconici di Marco Zuccherelli e Lorenzo Cirri è iniziato un viaggio lungo un anno, un percorso fatto di voci dirette dal campo, riflessioni tecniche e temi internazionali che abbiamo cercato di mappare attraverso le live del Manic Monday di Ladies Rugby Club. Questa è una sintesi dettagliata di quanto emerso dalle interviste a giocatrici, allenatori e dirigenti, un quadro che spazia tra l’eroismo artigianale del nostro campionato e le vette del professionismo d'Oltralpe.
1. Il richiamo dell’estero e i "talenti in fuga"
Il tema più forte dell'anno è stato senza dubbio l'esodo di molte atlete azzurre verso la Francia e l’Inghilterra. Giocatrici come Alessia Pilani, Giada Corradini e Martina Dall'Antonia hanno descritto una realtà organizzativa che per l'Italia è ancora una chimera. Oltre confine, il rugby è parte integrante della cultura: a Bordeaux si vedono bandiere e maglie del club ovunque in città. Ma è la struttura professionale a fare la differenza: le atlete hanno accesso a staff medici completi con ginecologi, osteopati e fisioterapisti sempre disponibili, anche in seconda divisione.
Le giocatrici vengono monitorate con tecnologie come i GPS in ogni singolo allenamento, strumenti che molte di loro non sapevano nemmeno come accendere prima di arrivare in Francia. Inghilterra e Francia offrono sessioni video personalizzate e allenatori specifici per ogni reparto (skills per centri, ali e mediani), permettendo alle ragazze di vivere lo sport ad alto livello quotidianamente.
2. Lo scalino tecnico e l'enigma del "gioco al piede"
Dal punto di vista tecnico, il divario con le potenze mondiali si manifesta in maniera evidente in un fondamentale specifico: il gioco al piede. In Italia, la struttura del campionato domestico raramente "obbliga" le giocatrici a usare il piede per vincere le partite, creando una lacuna evidente quando ci si scontra con realtà come l'Inghilterra. Allenatori come Walter Pozzebon, Federico Zizzola e Nicola Bezzati hanno sottolineato la necessità di sessioni specifiche, ricordando che all'estero il calcio è una scelta tattica costante, mentre da noi è spesso visto come un'ultima risorsa.
3. La mente come motore: mental coaching e resilienza
Un altro pilastro emerso con forza è l'importanza dell'aspetto mentale. Alice Antonazzo ha evidenziato come in Italia manchi spesso la figura del mental coach, fondamentale non solo per gestire la pressione delle grandi competizioni come il Mondiale 2025, ma anche per supportare il delicato percorso di "return to play" dopo lunghi infortuni. La fatica psicologica della preparazione e la gestione delle emozioni post-mondiale sono stati temi ricorrenti nei racconti delle atlete.
4. Reclutamento e "generazione fortunata"
Il movimento italiano viene spesso definito come un sistema di "artigiani della palla ovale". La generazione di atlete nate tra il 2000 e il 2008 è però considerata "fortunata" perché ha oggi a disposizione percorsi formativi (nazionali Under 18 e Under 20) che prima non esistevano. Tuttavia, il reclutamento resta un fattore critico. La concorrenza di sport come la pallavolo e il calcio, che godono di strutture migliori e maggiore visibilità, rende difficile attirare nuove bambine. Maria Cristina Tonna ha ribadito l'importanza vitale del mini-rugby e della promozione scolastica per invertire il calo demografico e sportivo.
5. Geografie del sud e il progetto Neapolis
L'ingresso del Neapolis nel campionato Elite ha rappresentato una sfida logistica enorme e un segnale di speranza per il Meridione. Il presidente Pasquale De Dilectis ha raccontato i sacrifici necessari: costi di trasferta esorbitanti e la mancanza di campionati giovanili vicini costringono le società del Sud a sforzi economici e organizzativi quadrupli rispetto al Nord. Nonostante le difficoltà, il progetto Neapolis dimostra che con investimenti mirati (staff medico, preparatori a tempo pieno) è possibile competere al massimo livello.
6. Il futuro tra franchigie e media
Il dibattito sull'efficacia delle franchigie (Zebre e Benetton) è rimasto acceso tutto l'anno. Molti vedono in questo step intermedio tra club e nazionale l'unica via per garantire alle giocatrici un minutaggio di qualità contro squadre celtiche o spagnole. Parallelamente, si discute dell'obbligatorietà di una sezione femminile per i club maschili di alto livello, sul modello franco-inglese, per garantire stabilità e risorse. Infine, resta la sfida della visibilità: mentre all'estero i numeri televisivi esplodono, in Italia la promozione istituzionale fatica a uscire dalla "nicchia della nicchia".
Conclusione In sintesi, il rugby femminile italiano di quest'anno ci è apparso come un'auto potente e ricca di talento, che però si trova a correre su una strada ancora sterrata mentre le altre nazioni hanno già costruito autostrade a tre corsie. Per non restare indietro, non basta più l'eroismo delle nostre atlete; serve una visione coraggiosa che metta il movimento delle ragazze al centro del progetto nazionale.

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