Rugby femminile: il modello francese e il ritardo italiano, anatomia di una distanza siderale

Il Mondiale femminile 2025 ha emesso un verdetto che non lascia spazio a interpretazioni: l’Italia è fuori ai gironi, la Francia è in semifinale. Le Azzurre hanno chiuso con una vittoria contro il Brasile, ma sono state travolte dalla Francia all’esordio (24-0) e non hanno mai dato l’impressione di poter competere con Les Bleues durante il loro match. Le francesi invece,  pur senza brillare, hanno superato l’Irlanda ai quarti e ora sfideranno l’Inghilterra. Ma il vero confronto non è quello sul campo. È quello tra due sistemi. Due visioni. Due modi di intendere lo sport femminile, che proviamo ad analizzare per cercare di capire quanto grande sia questo divario, tra due mondi geograficamente così vicini, eppure lontanissimi.

Le fondamenta: 38.000 tesserate e una rete capillare

Nel 2025, la Francia conta circa 38.000 giocatrici tesserate nel rugby, distribuite su tutto il territorio nazionale. Questo è il frutto di una strategia federale che ha puntato sulla capillarità, sull’inclusione e sulla promozione del rugby nelle scuole, nei centri sportivi, nei territori. La Fédération Française de Rugby (FFR) ha investito in programmi giovanili, accademie regionali, formazione tecnica e campagne di comunicazione.

In Italia, il numero di tesserate si ferma a circa 6.500 (ma i dati sono di qualche anno fa e sappiamo che il trend è in calo), con una crescita più lenta e una distribuzione territoriale sbilanciata. Il rugby femminile è presente quasi esclusivamente in alcune regioni e fatica a radicarsi altrove. La Federazione Italiana Rugby (FIR) ha avviato progetti di promozione, ma senza una visione sistemica e senza un piano strutturato di sviluppo.

Club e finanziamenti: due universi paralleli

In Francia, i club di Elite 1 operano con budget tra i 400.000 e gli 800.000 euro l’anno. Hanno staff tecnici completi, preparatori atletici, fisioterapisti, strutture condivise con le squadre maschili e giocatrici semi-professioniste. I club ricevono sostegno federale, sponsorizzazioni nazionali e contributi regionali. La FFR ha appena annunciato una sponsorizzazione pluriennale con AXA, che supporterà il campionato femminile fino al 2028, con investimenti in visibilità, formazione e infrastrutture.

In Italia, i club di Serie A Elite si muovono con budget tra i 50.000 e i 150.000 euro, se parliamo di Serie A Elite, per i gironi territoriali il budget è spesso molto minore, quando non drasticamente ridotto all'osso. I club sono spesso sostenuti da sponsor locali e autofinanziamento. Le giocatrici non percepiscono compensi, e devono conciliare sport, lavoro e studio. La professionalizzazione è assente, e la sostenibilità economica è precaria. Questa differenza non è solo numerica: è qualitativa. In Francia, il rugby femminile è considerato un investimento. In Italia, è ancora visto come un settore da sostenere “per dovere”.

Comunicazione e pubblico: il potere del racconto

La Francia ha costruito una narrazione potente attorno al rugby femminile. Le partite del XV de France sono trasmesse in prima serata su France 2 e Canal+, con oltre un milione di spettatori a partita. Le finali di Elite 1 sono eventi mediatici, con copertura stampa, social e storytelling dedicato. Le giocatrici sono protagoniste di spot pubblicitari, documentari, interviste. Sono riconosciute, seguite, celebrate.

In Italia, la visibilità è frammentata. Le partite della Nazionale sono trasmesse saltuariamente su Rai Sport o in streaming, il campionato non ha copertura televisiva regolare, e la comunicazione è affidata ai singoli club. Le storie delle giocatrici restano invisibili, e il pubblico non ha strumenti per appassionarsi. Le storie delle giocatrici — le loro carriere, i sacrifici, i successi — non vengono raccontate. Non ci sono rubriche dedicate, né interviste sui media generalisti, né contenuti editoriali che le trasformino in figure riconoscibili. Il pubblico non ha modo di affezionarsi, di identificarsi, di costruire un legame emotivo con il movimento. E senza racconto, non c’è passione. Senza passione, non c’è pubblico. Senza pubblico, non c’è mercato.

Cultura sportiva e percezione sociale

La differenza culturale è evidente ed ha il suo peso: in Francia, il rugby femminile è percepito come sport di alto livello. In Italia, è ancora considerato “di nicchia”. Il rugby femminile francese è integrato nel sistema sportivo nazionale. Le giocatrici sono atlete, non eccezioni. La FFR ha lavorato per abbattere gli stereotipi, promuovere l’inclusione e valorizzare il ruolo delle donne nello sport.

Molte giocatrici raccontano di aver dovuto giustificare la propria scelta sportiva fin dall’adolescenza: “Non preferiresti giocare a pallavolo?”, “Ma non è uno sport da maschi?”, “Ti fai male, sei una ragazza”. Queste frasi non sono semplici battute, ma sintomi di una cultura che associa il rugby — sport di contatto, forza e resistenza — a caratteristiche considerate “maschili”. Il risultato è che le rugbiste, prima ancora di affrontare l’avversario in campo, devono affrontare una partita sociale contro pregiudizi radicati.

Secondo il progetto Woman in Rugby promosso dalla FIR e cofinanziato da Erasmus+ Sport, il rugby femminile è ancora percepito come una scelta “controcorrente”. La campagna #IoFaccioLaMaglia, nata per ribaltare lo stereotipo della donna relegata al ruolo domestico, ha messo in luce quanto sia difficile per le atlete essere riconosciute non solo come sportive, ma come donne che scelgono consapevolmente un percorso non convenzionale.

Questa resistenza non si manifesta solo nel linguaggio, ma anche nella mancanza di spazi, strutture e visibilità. Le famiglie spesso esitano a iscrivere le figlie a corsi di rugby, temendo infortuni o giudizi sociali. Le scuole raramente propongono il rugby come attività sportiva per le ragazze. I media, salvo rare eccezioni, non raccontano le storie delle rugbiste, contribuendo a mantenerle invisibili. Eppure, proprio il rugby — con i suoi valori di squadra, rispetto, inclusione — potrebbe essere uno strumento potente di emancipazione. Come ha sottolineato Maria Cristina Tonna, coordinatrice della FIR per l’attività femminile, il rugby insegna a ragazze e ragazzi a stare insieme, a superare i propri limiti, a costruire relazioni basate sulla fiducia. Ma per farlo, deve essere liberato dai vincoli culturali che lo tengono ai margini.

Il rugby nelle scuole francesi non è un destino: è una scelta politica

Uno degli argomenti più ricorrenti per spiegare il divario tra Francia e Italia è che “in Francia il rugby è sport nazionale, è dentro la scuola, è parte della cultura”. È vero: il rugby in Francia gode di una tradizione radicata, soprattutto nel Sud-Ovest, e ha una presenza significativa nei programmi scolastici. Ma ciò che spesso si dimentica è che questa realtà non è frutto del caso o della storia, bensì di scelte politiche e federali deliberate.

La FFR ha lavorato per decenni per portare il rugby nelle scuole, formando insegnanti, creando materiali didattici, stipulando accordi con il Ministero dell’Istruzione. Ha costruito un ponte tra sport e educazione, non si è limitata a sfruttare una tradizione esistente. Ha istituzionalizzato il rugby come strumento educativo, sociale e culturale.

In Italia, invece, si tende a usare l’assenza di questa tradizione come scusa per non fare nulla. Ma è proprio qui che si rivela il problema: confondere la mancanza di storia con la mancanza di volontà. Il rugby femminile italiano non ha bisogno di una tradizione centenaria per crescere. Ha bisogno di una Federazione che scelga di portarlo nelle scuole, di formare docenti, di creare sinergie con il sistema educativo. Ha bisogno di una politica sportiva che non si limiti a gestire, ma che costruisca.

Risultati e talento: il sistema fa la differenza

La Francia ha partecipato a tutti i Mondiali dal 1991, raggiungendo il terzo posto in sei edizioni. Ha vinto il Sei Nazioni sei volte, cinque con il Grande Slam. Le giocatrici come Gabrielle Vernier, Pauline Boudon-Sansus, Marine Ménager sono volti noti, testimonial, protagoniste.

L’Italia ha esordito al Sei Nazioni nel 2007, ha raggiunto i quarti di finale nel Mondiale 2021, ma senza continuità. Il talento c’è — Aura Muzzo, Alyssa D’Incà, Francesca Sgorbini — ma il sistema non lo valorizza. Le migliori devono emigrare per crescere, mentre in Francia il sistema trattiene e sviluppa le proprie atlete.

Non basta inseguire, bisogna cambiare rotta

Il rugby femminile italiano è a un bivio. Non bastano più le convocazioni, le singole prestazioni o gli eventi spot. Serve una scelta politica, culturale e strategica. Il mondo del rugby italiano deve smettere di trattare il rugby femminile come un comparto accessorio. A livello federale serve un piano pluriennale, con obiettivi chiari e verificabili: aumento delle tesserate, diffusione territoriale, formazione tecnica, accesso alle strutture, visibilità mediatica. Non bastano le linee guida generiche: servono indicatori di performance, scadenze, responsabilità assegnate.

Investimenti strutturali nei club e nella formazione

I club sono il cuore del movimento. Senza strutture, staff qualificati e risorse, non si può crescere. La FIR deve finanziare direttamente i club femminili, non solo con rimborsi spese, ma con fondi vincolati per la formazione tecnica, l’acquisto di attrezzature, la gestione degli impianti. In parallelo, va rafforzata la formazione degli allenatori e delle allenatrici ed i club vanno "spinti" a trovare i propri finanziamenti ed avere "obbligatoriamente un settore femminile". Pena l'esclusione dai campionati o la sospensione dei finanziamenti.

Una campagna di comunicazione nazionale

Il rugby femminile italiano soffre di invisibilità. Serve una campagna nazionale, coordinata, che coinvolga media, scuole, testimonial, eventi. Non bastano i post social dei club (peraltro spesso di qualità non buonissima): serve una narrazione potente, continua, accessibile.

Il coinvolgimento di sponsor e media mainstream

Senza sponsor, non c’è sostenibilità. Ma gli sponsor non arrivano da soli: vanno cercati, coinvolti, convinti. La FIR deve costruire pacchetti di visibilità dedicati al rugby femminile, offrendo alle aziende un progetto serio, con numeri, obiettivi e ritorni. Deve creare occasioni di investimento, non aspettare che qualcuno si accorga del movimento e lo stesso devono fare i club sul territorio. Se non si lavora in sinergia il risultato non sarà mai sufficiente.

La sponsorizzazione di AXA al campionato francese è un esempio virtuoso: non è solo un logo, è un progetto di lungo periodo, con eventi, comunicazione, formazione. In Italia, servono partner nazionali, non solo sponsor locali. E servono accordi con i media mainstream, per garantire copertura regolare, approfondimenti, contenuti editoriali. Il rugby deve diventare parte del palinsesto sportivo, non un’appendice.

La creazione di un campionato semi-professionale entro quattro anni

Il rugby femminile italiano non può restare dilettantistico. Serve una transizione graduale verso il semi-professionismo, con un campionato strutturato, sostenuto da fondi federali e sponsorizzazioni. Le giocatrici devono poter dedicare tempo e energie al rugby, senza dover scegliere tra sport e lavoro.

La Francia ha già avviato questa transizione: le giocatrici di Elite 1 ricevono compensi, benefit, supporto medico e tecnico. In Italia, si può partire da una Elite ristretta, con 6–8 squadre sostenute economicamente, e poi allargare. Ma serve una volontà politica, una regia federale, e un piano economico credibile. Il professionismo non è un lusso: è una condizione necessaria per competere. Non bastano più 25 contratti centralizzati, che certamente sono un unicum nel sistema sportivo italiano, ma non sufficiente a sorreggere il sistema.

Non basta inseguire: bisogna cambiare rotta

Il rugby femminile italiano ha talento, passione, storia. Ma non ha ancora un sistema. E senza sistema, non c’è futuro. La Francia ha dimostrato che si può costruire un movimento solido, visibile, competitivo. L’Italia può fare lo stesso, ma deve smettere di inseguire e iniziare a progettare.

In definitiva, è necessario investire. Non si tratta di distribuire fondi a caso o di sostenere il movimento con contributi simbolici: si tratta di allocare risorse in modo strategico, con l’obiettivo preciso di costruire un sistema solido e sostenibile. Un progetto di crescita richiede visione, continuità e coraggio. Se non c’è la volontà, possibilità — o la capacità — di farlo, allora è inutile parlare di obiettivi, di performance, di competitività internazionale. Perché in assenza di investimenti mirati, ci si condanna a sopravvivere, a galleggiare in una zona di comfort che non produce né progresso né ambizione. E questo, oggi, non è più sufficiente. Il rugby femminile italiano merita di più. Ma prima di tutto, deve essere messo nelle condizioni di crescere davvero.

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