Italia fuori dal mondiale. La sconfitta col Sudafrica fa male... A tutto il movimento.
Sono di ritorno da York, dopo aver assistito alla partita delle Azzurre, e questa è una delle analisi più difficili che mi sia mai trovato a scrivere. La sconfitta dell’Italia per 29-24 contro il Sudafrica, che ha segnato l'eliminazione dalla Coppa del Mondo, non può essere trattata come un semplice risultato sportivo. È un segnale forte e inequivocabile che ci costringe a una riflessione profonda e critica sullo stato attuale del rugby femminile italiano, al di là dell'impegno e del cuore che le nostre atlete mettono sempre in campo.
La sconfitta dell’Italia contro il Sudafrica (29-24) a York non è solo un’eliminazione dalla Coppa del Mondo. È un campanello d’allarme, un segnale forte e inequivocabile che impone una riflessione profonda sullo stato del rugby femminile italiano. Le Azzurre hanno lottato con orgoglio, hanno segnato quattro mete, hanno provato a resistere. Ma sono state travolte da una squadra più preparata fisicamente, più lucida tatticamente e più aggressiva nei momenti chiave.
Il risultato finale è solo la superficie. Sotto, c’è una serie di fragilità strutturali che non possiamo più ignorare. Non è una questione di singole giocatrici, né di episodi. È il sistema che non regge. È il movimento che non cresce. È il rugby femminile italiano che, nonostante la passione e il talento, continua a essere trattato come un progetto secondario.
🎯 Analisi tecnica: dove ha ceduto l’Italia
1. 🦶 Gioco al piede: un’arma spuntata
Nel rugby moderno, il piede è uno strumento di gestione, di pressione, di controllo. E in questo fondamentale, l’Italia ha mostrato limiti evidenti:
- I calci di liberazione sono stati usati pochissimo e quando è stato fatto, sono stati spesso corti, imprecisi, inefficaci. Invece di alleggerire la pressione, hanno regalato territorio alle avversarie.
- I calci tattici sono stati rari e poco incisivi. Nessun tentativo di invertire l’inerzia del gioco, di costringere il Sudafrica a rincorrere.
- Mancanza di visione strategica: il Sudafrica ha saputo usare il piede per guadagnare metri, per consolidare il possesso, per gestire il ritmo. L’Italia no.
“Nel rugby moderno, il piede è uno strumento di controllo. L’Italia lo ha usato come un’ancora, non come una vela.”
2. 💪 Fisicità: il divario è evidente
Il confronto fisico è stato impietoso. Le sudafricane hanno imposto la loro superiorità in ogni zona del campo:
- Nei placcaggi, le italiane sono state spesso in difficoltà, costrette a raddoppiare, a rincorrere e a difendere in affanno.
- Nei punti d’incontro, le ball carrier sudafricane hanno guadagnato metri con facilità, rompendo la linea difensiva con continuità.
- Gli infortuni di Tounesi e Veronese hanno ulteriormente indebolito la tenuta fisica del gruppo, già messo sotto pressione.
“Il rugby è uno sport di collisione. E oggi, ogni collisione ha avuto un solo vincitore.”
3. 🧱 Mischia e breakdown: il cuore del dominio sudafricano
Il Sudafrica ha costruito la sua vittoria partendo dalle fondamenta: mischia e breakdown.
- La mischia ordinata italiana è stata instabile, penalizzante, incapace di garantire possesso sicuro.
- Nei breakdown, le sudafricane hanno vinto quasi tutti i duelli, guadagnando palloni preziosi e calci di punizione.
- La gestione del punto d’incontro è stata lenta, prevedibile, vulnerabile. Il Sudafrica ha sfruttato ogni esitazione per ripartire.
“Il Sudafrica ha giocato il rugby delle fondamenta. L’Italia ha cercato di costruire senza cemento.”
🧩 Le criticità del movimento femminile italiano
Questa sconfitta non è un episodio isolato. È il riflesso di problemi strutturali che frenano lo sviluppo del rugby femminile in Italia. Ecco dove il sistema mostra le sue crepe.
🔧 Formazione e sviluppo
- Gli allenatori non sempre hanno competenze specifiche nel rugby femminile, e la formazione tecnica è frammentata. Il livello del gioco del campionato italiano è molto basso e presenta delle forti lacune dal punto di vista tecnico e tattico.
- I percorsi di crescita sono discontinui: molte atlete abbandonano tra i 18 e i 22 anni, per mancanza di prospettive, supporto o motivazione.
💰 Investimenti e risorse
- I club femminili hanno, nei club, budget limitati, spesso subordinati alle esigenze delle squadre maschili.
- La visibilità mediatica è scarsa, e questo limita l’accesso a sponsor, pubblico e opportunità. Il modo in cui la Rai tratta il mondiale è sintomatico.
- Le infrastrutture sono spesso inadeguate: campi condivisi, palestre insufficienti, staff medico e tecnico ridotto all’osso.
🏉 Disinteresse strutturale da parte dei club
- Solo una minoranza di club investe realmente nel rugby femminile, con progettualità e convinzione. Troppi progetti nascono e muoiono nell'arco di una stagione o due per mancanza di risorse, interesse e volontà.
- Troppi club ignorano il settore, lo relegano a un ruolo marginale, lo trattano come un obbligo formale.
- Le squadre femminili si allenano con risorse minime, spesso senza una vera integrazione nel progetto sportivo.
“Il rugby femminile non può crescere se continua a essere trattato come un progetto secondario. Serve una presa di responsabilità da parte dei club e della Federazione.”
🏆 Competizione interna debole
- Il campionato italiano è poco competitivo: poche squadre, divari tecnici evidenti, calendario frammentato.
- Le migliori giocatrici sono costrette a emigrare per crescere, impoverendo il livello nazionale e indebolendo la base.
- La seconda divisione va strutturata non per territorialità ma per livelli, in modo tale che permetta di ampliare il bacino e offrire continuità nella crescita alle giovani.
- Serve un campionato U18 a XV come hanno tutte le le squadre che ci precedono (e seguono) nel ranking mondiale.
🧭 Cultura sportiva e percezione
- Il rugby femminile è ancora visto come un’eccezione, non come una normalità. È tollerato, non valorizzato.
- Poche scuole promuovono il rugby tra le ragazze, e l’accesso allo sport resta limitato.
- Stereotipi e pregiudizi frenano la partecipazione, l’interesse, l’inclusione. Il rugby femminile merita di essere raccontato, non solo praticato e perché accada la seconda cosa c'è ampliamente necessità della prima.
💼 Il professionismo cambia le regole: l’amatoriale non basta più
- Le nazioni di vertice hanno già investito in contratti professionali, accademie, percorsi di alta performance.
- L’Italia resta legata a un modello dilettantistico, dove le atlete si allenano dopo il lavoro o lo studio, senza retribuzione né tutele.
- Il divario si riflette sul campo: nella tenuta fisica, nella lucidità tattica, nella gestione della pressione.
“Non si può chiedere a un’atleta di competere con chi vive di rugby, se lei deve viverlo solo nei ritagli di tempo.”
Conclusione: serve una vera e propria rivoluzione, non una consolazione
L’Italia ha perso. Ma non ha perso solo una partita. Ha perso l’occasione di dimostrare che il rugby femminile può essere competitivo, strutturato, rispettato. Ha perso la possibilità di raccontare un’altra storia, di costruire un futuro diverso.
Non bastano le pacche sulle spalle. Non bastano gli applausi di circostanza. Serve una rivoluzione culturale, tecnica, politica. Serve una visione a lungo termine, investimenti mirati, coraggio istituzionale. Serve che il rugby femminile italiano venga trattato come rugby. Punto.
“Il rugby femminile italiano non ha bisogno di compassione. Ha bisogno di rispetto, risorse e ambizione.”
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