Questo articolo nasce da una chiacchierata esclusiva con Beatrice Rigoni, protagonista dell’episodio 17 della live Parliamo di Rugby, trasmessa sul canale YouTube Rugby Zed10. In collegamento da Manchester, dove milita nel campionato inglese, Rigoni ha condiviso con i conduttori Enrico, Simone e Marco riflessioni profonde sul mondo della palla ovale.
Qui trovate l'intervista intera:
PARLIAMO DI RUGBY, episodio 17. SPECIAL GUEST: BEATRICE RIGONI
Durante la diretta, si è parlato dell’inizio della sua stagione, delle differenze tra il rugby italiano e quello britannico, e del contesto professionistico che sta trasformando il panorama internazionale. Un confronto ricco di spunti, che ci offre uno sguardo privilegiato sul rugby femminile visto da Oltremanica.
Che il rugby femminile sia in crescita è un dato di fatto. Lo vediamo negli stadi sempre più pieni per i match internazionali, nell'aumento della copertura mediatica e nell'entusiasmo che circonda le nostre Azzurre. Tuttavia, dietro le partite che vediamo in televisione si nasconde una realtà più amara: quella di un movimento che, pur avendo il talento per competere, rischia di essere lasciato indietro da un fallimento sistemico. Non si tratta solo di giocare meglio, ma di costruire un'intera architettura per il successo.
Per gettare uno sguardo oltre il velo, abbiamo analizzato la recente intervista a Beatrice Rigoni, una delle atlete di punta della Nazionale Italiana e giocatrice dei Sale Sharks nel campionato professionistico inglese. Le sue parole, dirette e senza filtri, non si limitano a descrivere la differenza tra il rugby italiano e quello inglese; mettono a nudo le fondamenta fragili su cui poggia il nostro sport, evidenziando un divario che è culturale, strutturale e di visione.
Questo articolo svela cinque delle sue riflessioni più sorprendenti, cinque verità che ci costringono a chiederci perché, nonostante il talento, l'Italia rischi di perdere un'altra occasione storica.
1. Non è solo allenamento, è una questione di mentalità
La prima, e forse più importante, differenza evidenziata da Rigoni non è tecnica o fisica, ma culturale. In Inghilterra, ogni singola sessione di allenamento, dalla più leggera seduta di skills al più intenso contatto, viene affrontata con il 100% dell'impegno e della concentrazione. È una richiesta implicita e costante, un ambiente in cui tutte le atlete intorno a te lavorano con la stessa, implacabile intensità.
Rigoni ammette con onestà che in Italia, a volte, questo non le accadeva. La sua riflessione va però più in profondità, smontando un alibi fin troppo comodo. Di fronte all'idea che certi ritmi non siano "nel nostro DNA", risponde che a volte "è un po' facile nascondersi" dietro a scuse culturali. Questa non è un'impossibilità genetica, ma una scelta: un'intensità che il sistema italiano non pretende con la stessa forza, uno standard che non viene imposto come requisito minimo per l'eccellenza.
"Loro fanno tutto quello che c'è da fare al 100%... il loro livello di impegno è impeccabile ogni volta... E questo in Italia mi è capitato di non farlo e qui invece mi hai richiesto di farlo ogni volta."
2. Il paradosso incredibile: più staff nel club che in Nazionale
Una delle rivelazioni più scioccanti di Beatrice Rigoni riguarda la struttura di supporto a disposizione delle atlete. Nel suo club inglese, i Sale Sharks, lo staff che segue la squadra femminile è più numeroso e completo di quello che ha a disposizione con la Nazionale Italiana. La lega inglese, infatti, obbliga i club ad avere uno standard minimo di personale.
L'elenco è impressionante: fisioterapisti sempre presenti, video analyst, un capo allenatore affiancato da allenatori specifici per difesa, mischia, calci e touche, oltre al medico. Ma più che l'elenco, colpisce la reazione di un'atleta d'élite come lei, che ammette: "non sono mai stata trattata così a 360°". Queste parole rivelano una verità amara: persino le migliori giocatrici italiane non hanno mai sperimentato un livello di supporto così capillare, una condizione che per le loro colleghe inglesi è la normalità. Il divario è strutturale, e dimostra come in Inghilterra si investa per ottimizzare ogni singolo dettaglio della performance.
"Noi qui come ragazze e credo sinceramente che abbiamo molto più staff di quello che abbiamo con la nazionale... non sono mai stata trattata così a 360° quindi è è davvero ti cioè ti fa capire su su che livelli viaggiamo."
3. Non si arriva per caso: la filiera che in Italia manca.
Come si diventa una giocatrice di Premiership? Rigoni descrive un percorso, una filiera strutturata che in Italia semplicemente non esiste. In Inghilterra, le ragazze passano attraverso college e università con campionati competitivi e allenatori pagati per formarle. Quando approdano a un club di vertice, sono atlete "completamente formate".
Questa realtà è in netto contrasto con la situazione italiana, dove, come racconta la stessa Rigoni, in una squadra di vertice come il suo ex club Valsugana poteva ancora capitare di tesserare una ragazza che aveva appena iniziato a giocare. Non è un demerito dei club italiani, ma la prova di un difetto sistemico. I nostri club d'élite sono gravati da un doppio compito insostenibile: competere ai massimi livelli e, contemporaneamente, fare sviluppo di base. È una falla strutturale che rallenta inevitabilmente la crescita dell'intero movimento.
"A Sale non arriverà mai una ragazza che ha appena cominciato a giocare... cosa che magari al valso [Valsugana] poteva succedere per fortuna ma perché i numeri erano diversi."
4. 3000 persone per il campionato: quando il rugby femminile è uno spettacolo.
L'interesse del pubblico è un termometro fondamentale per la salute di uno sport. I numeri citati da Rigoni sono emblematici: assistere a una partita di campionato con 3000 spettatori, o vedere una squadra che si sposta per una trasferta seguita da 800 tifosi, è la normalità. In Italia, questi numeri sono impensabili.
A questo si aggiunge la copertura mediatica: Rigoni nota come quest'anno sembri che tutte le partite del suo club siano trasmesse in streaming, un passo fondamentale per la visibilità e la professionalizzazione della lega. Un forte seguito di pubblico e una copertura costante non sono solo il risultato del successo, ma un motore che lo alimenta, creando un circolo virtuoso di interesse, sponsorizzazioni e investimenti che in Italia si fatica ancora a innescare.
5. "Siamo state forti nel momento sbagliato": l'amara verità.
Forse il punto più toccante è la riflessione sulla sua generazione di atlete. Rigoni esprime la frustrazione di aver fatto parte di una squadra nazionale fortissima, capace di risultati storici come il secondo posto al Sei Nazioni, senza che il movimento italiano sia stato in grado di capitalizzare quell'onda di successo. Al tempo, era convinta che quei traguardi avrebbero cambiato tutto, ma oggi si ritrova a lottare ancora per difendere conquiste basilari.
La sensazione è quella di un'impresa storica che è stata un "sasso nel vuoto": un impatto momentaneo che non ha generato onde durature, perché il sistema non era pronto a incanalarne l'energia. È l'amarezza di chi ha raggiunto l'apice ma si è reso conto che, senza una struttura solida alle spalle, anche la vittoria più bella rischia di non lasciare un'eredità.
"[...] vorrei che rimanesse sempre il minimo standard questo e che questo minimo standard non scendesse mai e che non dovessimo costantemente lottare per mantenere il minimo standard."
Conclusione: Un Treno da non perdere (di nuovo)
Le parole di Beatrice Rigoni sono un'analisi lucida e spietata. Ci dicono che il divario tra il nostro rugby e le eccellenze mondiali non è solo una questione di soldi. È un divario di cultura del lavoro, di visione strategica e di strutture. Non basta il talento delle singole, se non è supportato da un'architettura pensata per farlo fiorire e prosperare.
Durante l'intervista, un commento di uno degli interlocutori gela il sangue: "questo è già il secondo treno che perdiamo, cioè adesso l'abbiamo perso col maschile e adesso lo perdiamo anche col femminile". È una diagnosi terribile, che inserisce la potenziale crisi del rugby femminile in una narrazione dolorosamente familiare per tutto il movimento italiano. Abbiamo già visto una generazione d'oro nel maschile non riuscire a tradurre il proprio potenziale in una crescita sistemica.
L'Italia ha già perso un treno. La domanda, a questo punto, è una sola: riusciremo a salire sul prossimo, o siamo destinati a guardarlo sfrecciare via, ancora una volta, lasciandoci sulla banchina a chiederci cosa sarebbe potuto essere?
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