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Carla Negri, Elinor Snowsill e il filo invisibile di un drop alla RWC

C’è un istante, nel rugby, in cui il tempo sembra dilatarsi. Non si ferma. E' come sospeso. Come se il mondo trattenesse il fiato, in attesa di un verdetto che non ha bisogno di parole. Il pallone, in quell'attimo, non è più solo cuoio e cuciture. Diventa concetto. Diventa intenzione. Diventa scommessa contro l’aria, contro il vento e contro la logica.

È l’istante del drop. Un gesto antico, che sa di sfida e d'istinto. Modernissimo, perché non ha bisogno di forza: ha bisogno di coraggio. Romantico, perché è solitario. Crudele, perché non ammette repliche. E in quell'istante, due storie si sfiorano. Carla Negri, Llanharan, Inghilterra–Italia, 1991. Elinor Snowsill, Marcoussis, Galles–Sudafrica, 2014. Due archi tesi, stessa freccia. Due epoche e un solo vocabolario: quello del coraggio.

Immaginate. Un pomeriggio gallese, uno di quelli che sa di lana bagnata e di radioline gracchianti, quelle che sputano voci impastate dalla tensione e da troppe "bitter ale". Il Dairy Field di Llanharan è una tavolozza di fango e speranza. Il pubblico è scarso, ma attento. E lì, in quel piccolo stadio che odora di birra ed erba bagnata, succede qualcosa che nessuno aveva previsto.

Di fronte, l’Inghilterra. La maglia azzurra quel giorno, per chi la indossa è una promessa. E pesa. L'Italia è una squadra che non ha ancora storia, ma la sta scrivendo. Un contatto alla volta. Un placcaggio alla volta. Un centimetro alla volta.

Carla Negri riceve palla. Ha un secondo. Non di più. Ma in quel secondo c’è tutto: il passato, il presente, e un futuro che ancora non sa di esistere. Il piede scende. Non è violento. Non è teatrale. È preciso. È giusto. Scende come un giudice che non ha bisogno di parole. Il pallone rimbalza. Sale. Non corre, sale. Teso, quasi timido. Come se chiedesse permesso all’aria. Poi si concede. Oltre la traversa. Dentro la memoria. E in quel momento, in quel lampo, il rugby italiano femminile dice: Ci siamo anche noi. Con i nostri mezzi. Con la nostra caparbietà. Con il coraggio di scegliere il gesto più solitario che c’è.

L’Italia chiude il primo tempo in vantaggio. 9–5. È come se il mondo si fosse capovolto. Le inglesi, abituate a dominare, arrancano. Zoppicano. Si guardano negli occhi cercando risposte che non arrivano. Gli infortuni sono tanti, troppi, come se il destino avesse deciso anche lui di giocare quella partita, scegliendo di indossare la maglia azzurra.

Si riparte e accade una di quelle scene che solo il rugby sa regalare. Ennesimo infortunio, l'Inghilterra ha finito i piloni. Nicki Ponsford, tallonatrice di mestiere, si sposta a pilone sinistro. Non per gloria. Per necessità. La mischia inglese tiene e piano piano l’Inghilterra, come in certi romanzi, parte lenta, poi ti travolge. Cominciano a muovere l’ovale. Largo. Larghissimo. E l’Italia, che aveva chiuso ogni varco, ora non riesce più a contenere.

Entra in scena Stenett. Una giocatrice che non corre. Vola. Tre mete. Una più pesante dell’altra. E poi ne serve un’altra, come fosse un gesto di generosità verso la storia. Finisce 25–5. L’Italia esce sconfitta, sì. Ma per un tempo — un solo, magnifico tempo — ha fatto tremare le regine. Carla Negri, con quel movimento che sembrava scolpito nel tempo, non ha solo fatto tremare l’Inghilterra. Ha aperto una crepa nel presente. E da quella crepa, come una luce che filtra tra le imposte chiuse, è uscito qualcosa di più grande. Il futuro delle Azzurre. Non lo sapevamo ancora. Ma era già lì. In quel tremore. In quel silenzio che segue il colpo. In quell’eco che non smette di risuonare. Solo un istante. Un gesto. Ma non uno qualunque.

Ventitré anni dopo. Marcoussis. Centre National de Rugby. Il cielo ha quell'azzurro francese che non è cielo: è gesso. Tracciato a mano, come le linee di un campo che non concede errori. Galles–Sudafrica. Mondiale femminile parigino del 2014. Una partita che non è ancora esplosa, ma pulsa. Coraggio e equilibrio. Le squadre sono come due pugili che si studiano, senza ancora colpire.

Poi, Elinor Snowsill. Si ritaglia un metro. Un solo metro di quiete nella tempesta. E lo usa. Drop. Pulito. Didascalico. Come se fosse scritto prima, come se il pallone sapesse già dove andare. Il punteggio finale dirà 35–3. Sioned Harries firmerà tre mete di potenza. Robyn Wilkins metterà ordine e punti. Ma il primo colpo alla serratura, la chiave che apre la diga, è quel drop. In prima frazione. Il gesto che sposta il baricentro emotivo della gara. Che dice a tutte: “Seguiteci.” Il pallone cade sulla cucitura. Sale. Non corre, sale. E quando ridiscende, la partita è già cambiata. Non nel punteggio. Nel destino.

Il drop. Non è un gesto. È una sospensione. È l’arte di manipolare il tempo, come se il mondo, per un istante, si fermasse. Non ha compagni. Non ha alibi. Ha solo il rimbalzo. Il vento. E quella cosa che non si allena: la capacità di credere. È la geometria segreta del rugby. Non sfonda. Piega. Come un origami emotivo che trasforma la partita senza mai alzare la voce.

E allora non stupisce. Non può stupire. Che nel 1991, l’anno che custodisce il gesto di Negri, a Murrayfield, sotto un cielo che non prometteva nulla di buono, una semifinale mondiale maschile si sia decisa così. Inghilterra–Scozia. 9–6. Un drop nel diluvio. Come se la pioggia fosse parte del copione. E anni dopo, Johnny Wilkinson. Il ragazzo che non sorrideva mai pietrifica l’Australia con un drop che non è solo un punto, è un epilogo. È il Mondiale. È la leggenda che rimbalza sulla terra dei canguri e non si ferma più. Perché certe partite non le vinci. Le pettini controvento. E poi le lasci andare. Al punto giusto. Nel momento esatto. Nel silenzio che precede la storia.

Carla Negri sceglie il drop per affermare un’identità, lo fa come chi entra in scena e non chiede il permesso, Snowsill lo usa per inaugurare una marcia. Non una fuga. Una marcia. Con il ritmo, la direzione e il destino.

Due tempi, due scenografie, un unico vocabolario: la lingua del coraggio. Perché il drop è soprattutto questo: una forma di coraggio e di sincerità. Dice chi sei quando non puoi nasconderti. È il gesto che confessa l’ambizione e accetta il rischio. E se guardate bene, tra il 1991 e il 2014 non c’è un abisso: c’è un filo invisibile che passa per le mani, per il cuore e per il piede di due giocatrici. Il drop non lo tiri, lo lasci andare, e per un istante tutto il mondo sta in quell'ellisse ovale.

Queste due storie, come tutte le storie di rugby, non si scrivono. Si percorrono. Sono fatte di chilometri, di dettagli minuscoli, di mani che si stringono, di fatica, di occhi che cercano e si cercano. Ma ogni tanto, per capirle davvero, non serve una cronaca. Serve un suono. Un solo suono. Paf! Il pallone che tocca terra. Il piede che lo incontra. Il cielo che, per un istante, diventa palcoscenico. Carla Negri, Elinor Snowsill, due firme diverse, stessa calligrafia. Il drop come carta d’identità. Come promessa mantenuta. Come gesto che non chiede permesso, ma lascia il segno.

E noi, che le rivediamo nei video, che ascoltiamo in silenzio le loro storie, capiamo che quel gesto non invecchia. Non si consuma. Cambia solo la luce con cui lo ricordiamo. A volte è alba. A volte è tramonto. Ma è sempre lo stesso istante: quello in cui il mondo si ferma e l’ellisse ovale decide di raccontare chi sei.

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