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Edimburgo, Parigi, Auckland: la bellezza incompiuta del rugby francese al mondiale

 “Il rugby è uno sport che non perdona. Ti dà tutto, ma solo se sei disposto a perderlo.”

Lo disse una volta Annick Hayraud, seduta su una panchina di legno, con le mani ancora segnate da anni di placcaggi. Era il 1994 a Edimburgo. Il giorno in cui la Francia vinse il suo primo bronzo alla Coppa del Mondo femminile. E capì che non sarebbe bastato.

C’è qualcosa di tragico e magnifico nella storia della Francia alla Coppa del Mondo femminile. Una squadra che ha sempre avuto talento, cuore, visione. Ma che non ha mai giocato una finale. Mai. Sette volte terza. Mai seconda. Mai prima. Questa è una storia da raccontare piano, con la voce bassa, come si fa con le cose sacre. Perché qui non si parla solo di rugby. Si parla di orgoglio, di dolore, di quella strana nobiltà che nasce dalla sconfitta. E allora, partiamo da tre giorni, tre città e tre partite che hanno scritto la leggenda incompiuta de Les Bleues.

20 aprile 1994, Edimburgo – Il bronzo che non consola

Quel giorno, il rugby femminile non aveva ancora riflettori. Ma aveva verità e "la verità, spesso, fa male". Annick Hayraud non lo disse subito. Lo disse anni dopo, quando ormai aveva smesso di giocare ed era passata dall'altra parte. Allenatrice. Sulla panchina della Francia. Ma chi c’era a Galashiels, il 20 aprile 1994, lo capì da sé.

Il campo del Gala RFC, nel cuore della Scozia, era umido, stretto, circondato da colline e silenzi. La seconda Coppa del Mondo femminile, nata tra mille difficoltà, aveva trovato rifugio lì, dopo la cancellazione improvvisa di Amsterdam. Nessuna diretta televisiva. Nessun logo ufficiale. Solo rugby. La Francia era arrivata in semifinale con grandi ambizioni. Aveva battuto nettamente l'Irlanda e le Scottish Student nella fase a gironi e demolito poi il Giappone ai quarti. Giocava un rugby fisico, coraggioso, con una mischia solida e una linea di trequarti che sapeva correre. Ma davanti c’era l’Inghilterra, una squadra che già allora sembrava professionista in un mondo ancora amatoriale.

La partita cominciò male. Al 10’, meta inglese, poi un’altra. La Francia non riusciva a contenere il ritmo. Le inglesi dominavano le fasi statiche, rubavano palloni, avanzavano con la precisione di un orologio. “Sembrava che avessero un piano. Noi avevamo solo il cuore,” dirà Hayraud, senza rancore.

La Francia provò a reagire. Un calcio piazzato. Un’azione al largo. Ma ogni tentativo veniva respinto. Le inglesi erano più forti. Più organizzate. Più pronte. Intanto il divario si allargava. E le avversarie non sembravano volersi fermare. Alla fine sarà 18–6. Una sconfitta netta. Senza discussioni. Ma non senza conseguenze. “Quel giorno capimmo che il rugby femminile sarebbe cambiato. E che noi dovevamo cambiare con lui” dirà ancora Hayraud. Due giorni dopo, Les Bleues giocheranno contro il Galles per il terzo posto a Raeburn Place, il 24 aprile 1994. Le francesi ci sono. E sono forti. La semifinale contro l’Inghilterra è stata un incubo. ma due giorni dopo, contro il Galles, succede qualcosa. Les Bleues entrano in campo con gli occhi pieni di rabbia. E vincono: 27–0. “Non c’erano telecamere. Non c’erano titoli. Ma c’era rugby. Quello vero,” conclude Hayraud. Quel bronzo è il primo. Storico. Ma già allora si capisce che la Francia non è fatta per accontentarsi.

13 agosto 2014Parigi – Le lacrime di una nazione

Stade Jean-Bouin, 13 agosto 2014. Stavolta il Mondiale è in casa. Le tribune sono piene, il pubblico canta. La Francia ha dominato la fase a gironi, battendo anche l’Australia. In semifinale c’è il Canada. Una squadra solida, ma mai arrivata così lontano, fisica, disciplinata, ma senza il talento individuale delle francesi. Almeno così si pensava. La squadra francese è ispirata. In campo ci sono Sandrine Agricole, Safi N'Diaye, Gaëlle Mignot. L’atmosfera è da finale. “Quel giorno, Parigi smise di respirare per 80 minuti.” Lo scrisse L’Équipe. Ma chi c’era allo Stade Jean-Bouin lo sa: quella non fu solo una partita. Fu un duello tra sogno e realtà. E la realtà, quella sera, aveva il volto di Magali Harvey.

La partita comincia con la Francia che prende il controllo. Calcio piazzato di Agricole: 3–0. Poi un altro: 6–0. Il pubblico esplode. Ma il Canada non molla. Risponde con due calci di Harvey: 6–6. Si va al riposo con un equilibrio che non racconta la superiorità tecnica delle Bleues. Nel secondo tempo, il Canada passa avanti con una meta di Alarie 6–11, ma la partita è aperta. Vibrante. E poi, al minuto 46, accade. Magali Harvey riceve palla sulla fascia destra. È lontana, poco avanti alla linea di meta canadese. Tutti si aspettano un calcio di liberazione e invece no. Lei parte. Corre, non si ferma, non può fermarsi. Magali Harvey ha il vento alle spalle e il destino davanti. Salta una, poi un’altra, poi una terza avversaria, il campo diventa un'autostrada, il tempo si dilata. I passi sono leggeri, ma il peso di quella corsa è enorme. E quando varca la linea, non è solo una meta. È una dichiarazione. È il momento in cui il rugby femminile canadese smette di essere promessa e diventa realtà. Una corsa di 80 metri. Una meta che cambierà la storia del rugby canadese. E quella francese. “Sembrava che il tempo si fosse fermato. Solo lei si muoveva” riporterà un giornalista canadese del Toronto Star.

Non paga Harvey si porta il pallone sulla piazzola. Conversione riuscita. 18–6 per il Canada. La Francia è sotto. Ma non si arrende. Va in meta con Assa Koita, 18–11 e tutto d'un tratto il sogno sembra nuovamente possibile. Sono minuti che non scorrono, ma gocciolano. La Francia è tutta lì, nel fazzoletto di campo dove si decide il proprio destino. Spinge, lotta, insiste. È un assedio, ma non medievale: è moderno, feroce, lucido. Cercano uno spiraglio, un varco, un errore. Ma il Canada non arretra. La difesa è un muro, sì, ma non di pietra: è fatto di volontà, di fatica, di cuore. Ogni attacco francese trova una risposta, ogni colpo una replica. È una danza brutale, senza musica, solo il battito del tempo e il respiro corto delle protagoniste.”

Al 65’, la difesa canadese cede. Les Bleues trovano la meta con Safi N'Diaye. Il pubblico impazzisce. 18–16. Agricole si avvicina al punto di trasformazione con la solennità di chi sa che il destino, a volte, si misura in centimetri. Ha sui piedi il pallone del pareggio, ma sulle spalle il peso di una nazione che sogna. Calcia. Il gesto è pulito, elegante, quasi scolpito. La traiettoria parte bene, da sinistra verso il più lontano dei pali, come se volesse disegnare una parabola di redenzione. Il pubblico è muto, sospeso, incantato. Ma poi, come in certe storie che non vogliono saperne di lieto fine, il pallone si spegne. Non tra i pali, ma appena a destra. Un soffio. Un sussurro del vento. E con lui, svanisce anche il sogno francese. Agricole resta lì. Immobile. Lo sguardo fisso, non sul pallone, ma su quel punto preciso dove avrebbe dovuto passare. Non c’è rabbia, non c’è disperazione. Solo silenzio. Il silenzio di chi ha dato tutto e ha perso per un niente. Attorno a lei il mondo riprende a muoversi, ma lei è ferma, come incastrata in una fotografia che nessuno scatta. E in quel momento, il rugby smette di essere sport. Diventa dramma. Triste, sì. Ma eterno.

Ultimi minuti. La Francia attacca. Fase dopo fase, ma la difesa canadese è eroica. Il tempo scade. Il sogno finisce. Il bronzo arriverà con una vittoria netta contro l’Irlanda dei miracoli, capace di eliminare le Balck Ferns. Ma non conta. Quella semifinale è una ferita che rimane aperta. E brucia ancora.

5 novembre 2022, Auckland – Il sogno spezzato

Eden Park. La semifinale contro la Nuova Zelanda è una delle più belle partite della storia del rugby femminile. Una sfida che sa di finale anticipata. Una di quelle partite che non finiscono quando l’arbitro fischia. Finiscono quando smetti di pensarci. E questa, per la Francia, non è ancora finita.

Il cielo sopra Auckland è terso, ma l’aria è elettrica. 22.000 spettatori. La maggior parte neozelandesi. Ma Les Bleues non tremano. Anzi, partono fortissimo. Al 7’, Caroline Drouin trasforma un calcio piazzato: 3–0. Poi, al 23’, Romane Ménager sfonda la linea difensiva neozelandese e va in meta. Drouin trasforma. 10–0. La Francia domina. Silenzio sugli spalti. Ma le Black Ferns non sono una squadra qualsiasi. Sono cinque volte campionesse del mondo. E al 29’, Renee Holmes accorcia con un calcio piazzato: 10–3. Poi, da una mischia veloce, Kendra Cocksedge serve Ruahei Demant, che libera Stacey Fluhler. Meta. Trasformazione. 10–10.

La Francia non si scompone. Non può. Non deve. Perché certe squadre non giocano solo per vincere, giocano per dimostrare chi sono. E allora Gabrielle Vernier, che ha il nome di una poetessa e il passo di una predatrice, trova il varco. Non lo cerca: lo sente. Si infila tra le maglie neozelandesi come se il campo fosse un foglio e lei la penna. Segna. E poi Drouin, precisa come un orologio svizzero, trasforma. 17–10. È il punteggio all’intervallo. L'Eden Park, che ha visto leggende e miracoli ovali è ammutolito. Non è solo silenzio. È rispetto. Perché quando la Francia gioca così, non si applaude. Si contempla.

Nel secondo tempo, la Nuova Zelanda attacca fin da subito, Ruby Tui raccoglie un grubber kick e segna per le neozelandesi. Holmes sbaglia la trasformazione. 17–15. Poi, al 56’, Theresa Fitzpatrick segna ancora. Conversione di Demant. 22–17. E poco dopo, un calcio piazzato di Holmes: 25–17. La Francia è sotto. Ma non molla. Perché ci sono momenti in cui la differenza tra chi cede e chi resiste non è nel punteggio, ma nello sguardo. Al 65’, ancora lei: Romane Ménager. Non è solo una giocatrice, è un’idea. L’idea che il tempo non basta a piegare chi ha deciso di crederci. Si tuffa oltre la linea, come se volesse afferrare il futuro. Meta. Poi Drouin. Ancora lei. Il piede che non trema, il cuore che non accelera. Trasforma. 25–24. Mancano quindici minuti. Quindici minuti che non sono solo tempo. Sono possibilità. Sono sogno. E il sogno, ora, è vivo. Respira. E chiede di essere scritto.

Ultimo minuto. Non è più rugby, è teatro. La pressione francese è costante, feroce, quasi disperata. E alla fine, come un premio per la fede, arriva il calcio di punizione. Tocca ancora a Caroline Drouin. La stessa che ha tenuto in vita il sogno. Ora ha il potere di completarlo. Prende la rincorsa. Non corre: cammina verso il destino. Il silenzio è totale. Eden Park trattiene il respiro, come se il mondo intero avesse deciso di ascoltare solo il suono di quel calcio. Il pallone parte. Vola. Disegna una traiettoria che sembra scritta da un poeta ubriaco di speranza. Sfiora il palo sinistro. Ma non entra. Esce. E con lui, esce anche il sogno francese. Non svanisce. Si spegne. Come una candela che ha illuminato abbastanza da farsi ricordare, ma non abbastanza da cambiare la storia. Le Black Ferns recuperano il possesso. Tengono palla. L’arbitro fischia. Fine. La Francia perde di un punto. Di un calcio. Di un centimetro.

Caroline Drouin resta lì. Non cerca scuse, non cerca sguardi. Guarda davanti a sé, ma non vede il campo. Vede il momento. Quello che avrebbe potuto essere. Il volto è immobile, ma gli occhi raccontano tutto. Non c’è disperazione, non c’è rabbia. Solo una consapevolezza silenziosa, quella che accompagna chi ha sfiorato la leggenda e l’ha vista scivolare via per un soffio. Attorno a lei, il mondo riprende a muoversi. Ma lei è ferma. Come se il tempo, per un istante, avesse deciso di rispettare il dolore. E in quel volto, in quello sguardo, c’è tutta la bellezza tragica dello sport. Perché perdere così non è fallire. È entrare nella memoria. “Ho sentito il rumore del sogno che si spezzava.” dirà poi Drouin. Non è solo una sconfitta. È una condanna alla memoria. Perché quel calcio, quel silenzio… Resteranno. Il bronzo per la Francia arriverà contro il Canada, con un netto 36–0. Ma non è quello che volevano. Non è quello che meritavano.

Tre semifinali. Tre epoche. Tre ferite. Ma anche tre prove di grandezza. La Francia è l’eterna terza. L’eterna promessa del rugby. E forse, un giorno, quel calcio entrerà. Perché la Francia non è solo una squadra. È un’idea. Quella che il talento non basta. Che il cuore non sempre vince. Ma che vale la pena provarci comunque. 

Ogni generazione ha avuto la sua semifinale. Edimburgo, Parigi, Auckland. Ogni volta, una lezione. Ogni volta lacrime. Ogni volta, una rinascita. Un giorno, quel calcio entrerà. Fino ad allora, la Francia resterà lì. Sul gradino più basso del podio, ma con la testa alta. Perché nel rugby, come nella vita, non conta solo vincere. Conta come si perde. E la Francia, da trentanni, perde con una bellezza che non si dimentica.

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