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RWC Parigi 2014: la vittoria con la Nuova Zelanda che rese immortali le figlie d’Irlanda

Marcoussis, agosto 2014. Parigi non sa ancora che sta per assistere a un'altra rivoluzione. Non quella con le barricate, ma con le maglie verdi. Irlanda contro Nuova Zelanda. David contro Golia. E il rugby, da quel giorno non sarà più lo stesso.

Ci sono partite che non si giocano solo sul campo. Si giocano nella memoria. Nella storia. Sotto la pelle. Le Black Ferns, imbattute da ventitré anni in Coppa del Mondo. Quattro titoli consecutivi. Una dinastia. E poi… le ragazze in verde. Nessuna nazionale irlandese, maschile o femminile, aveva mai battuto la Nuova Zelanda. Mai. Nessuno dava loro una chance. Nessuno, tranne loro stesse, ma quel giorno, il rugby decise di parlare gaelico.

Il cielo sopra Marcoussis è sereno. Le irlandesi entrano in campo con lo sguardo di chi ha letto Joyce e ha deciso che la storia non si scrive, si riscrive ignorando la sintassi. Niahm Briggs, maglia numero 15, leadership silenziosa ma devastante, ha il piede di una violinista: preciso, elegante, letale. I suoi calci non sono solo punti, sono proclami. Eppure sbaglia il primo, al sesto minuto. Ma non è un errore. È un presagio. Perché da lì in poi, ogni passo sarà una marcia verso l’impossibile.

Minuto ventidue. Kelly Brazier si avvicina al piazzola con la calma di chi ha visto tutto, e non ha paura di nulla. Il pallone è lì, immobile, come se sapesse già dove finirà. Il calcio è chirurgico. Tre a zero. Le Black Ferns cominciano a scrivere il prologo della loro ennesima vittoria. Quattro minuti dopo, il rugby si fa velocità pura. Selica Winiata, è una freccia nera, intercetta un pallone sporco e parte. È un contrattacco che sembra disegnato da Escher: geometrie impossibili, traiettorie che sfuggono alla logica. Corre, salta, schiaccia. Otto a zero. Il copione sembra già scritto. E sembra scritto da loro, le neozelandesi, dominatrici invincibili. Un copione perfetto, ma il rugby, come la vita ama le pagine strappate.

E l’Irlanda non li legge i copioni. Li strappa. Paula Fitzpatrick sfonda la linea, Heather O’Brien viene fermata a un metro dalla gloria. Briggs lancia un passaggio che per uno strano scherzo del destino finisce ‘in avanti’. Ma il rugby non è solo regole. È spirito. E l'Irlanda ne ha da vendere.

Minuto trentaquattro. Il pallone danza tra le mani delle irlandesi come se avesse finalmente trovato la sua melodia. Una giga ritmata fatta di pick and go. È un mantra. O forse una preghiera. Dal cuore della mischia, emerge Heather O’Brien. Numero 8. Spalle larghe, testa bassa. Si infila sotto i pali come chi non chiede il permesso, ma prende ciò che gli spetta. Meta. Sofferta. Cercata. Meritata. Tocca ancora a Briggs. Eccola davanti alla piazzola. Il silenzio è denso. Il calcio è perfetto. Otto a sette. L’Irlanda è viva. Ma non solo. L’Irlanda respira. Forte. Come chi ha appena capito che il sogno non è più un’illusione, è una possibilità.

Secondo tempo. La rivoluzione verde. Non è solo un’espressione cromatica. È un manifesto. È un cambio di paradigma. E quando Jenny Murphy mette piede in campo, il barometro della partita impazzisce. Non è una giocatrice. È un’onda d’urto. È fisicità che non chiede permesso. È un cuore che batte fuori dal petto.

Ma non è ancora tempo. Calcio di punizione per la Nuova Zelanda. Brazier avanza con l’aria di chi ha attraversato tempeste senza mai perdere l’orientamento. È fredda, imperturbabile. Come la brezza che arriva al tramonto, quando il cielo si fa rame e gli spalti smettono di respirare. Il pallone la aspetta, immobile. Lei lo raggiunge con la lentezza studiata di un’orologiaia: ogni passo è misurato, ogni gesto è già stato vissuto mille volte nella mente. Il gesto è minimale, quasi elegante. Il suono del calcio è secco, chirurgico. Undici a sette. Il tabellone cambia. Ma lei no. Non esulta. Non sorride. Perché certe giocate non hanno bisogno di rumore. Solo di rispetto.

Il punteggio dice una cosa. Ma la partita dice altro. Perché l’Irlanda non arretra. Non si scompone. Aspetta. Studia. Come un pugile che ha capito il tempo dell’avversario. E poi colpisce. Non con la forza, ma con la convinzione di chi sa che la storia, a volte, si scrive con l'inchiostro verde.

Minuto sessanta. Ecco il tempo che l'Irlanda stava aspettando. Il tempo in cui le partite non si giocano più: si decidono. Il chip neozelandese è corto, sbagliato. Briggs lo legge prima che accada. È un’intuizione, non un gesto. Raccoglie il pallone. E poi… poi salta Wickliffe con la leggerezza di chi ha il destino tra le mani. Corre. Ma non per sé. Perché vede qualcosa. Vede Miller, la freccia di Portlaoise. E quando le serve quel pallone, non è un passaggio. È un invito a entrare nella storia. Miller parte e non la prende più nessuno. Non la prende il tempo, non la prende il campo. Non ci arriva Jensen. È l’ultimo fotogramma di un inseguimento che sa di tragedia greca. Il braccio si allunga, il tempo rallenta, ma il destino ha già scelto. Il placcaggio non arriva, resta sospeso come una nota stonata in una sinfonia perfetta. E Jensen, in quell’istante, non è più solo una giocatrice: è la donna che ha sfiorato la salvezza e l’ha vista scivolare via, a un palmo dal cuore. Meta. Undici a dodici. Silenzio. Ma è il silenzio prima del tuono. Briggs prende la piazzola. Quarantaquattro metri, ma non è questione di metri. Quel calcio è un atto di fede, una sfida lanciata contro il vento e il dubbio. Il calcio parte. E vola. In mezzo ai pali. Undici a quattordici. Il pubblico esplode. Non è solo gioia. È liberazione. È consapevolezza. Perché da quel momento, nulla sarà più come prima.

Ma la storia, si sa, non ama le conclusioni affrettate. Non è ancora finita. Perché le Black Ferns non sono una squadra. Sono un’idea. Un’identità. E quando ferite, non si arrendono. Si rialzano e combattono. Cinque minuti. Un altro calcio di punizione. Un battito. Un lampo. E ancora lei. Brazier. Come un’eco che non smette di tornare. Si prende il tempo, lo piega, lo plasma. E pareggia. Quattordici pari. Il punteggio dice equilibrio, ma sotto, sotto, c’è una tempesta che sta per esplodere. 

L’Irlanda è stanca. Ma non è spenta. Ha dato quasi tutto. Quasi. Perché nel rugby, come nella vita, c’è sempre un colpo che resta. Un ultimo respiro. Un’ultima scintilla. E quel colpo, lo affida a lei. A Briggs. La donna del destino. Minuto settanta. Il tempo in cui il corpo vacilla, ma la mente decide. Il pallone è lì, immobile. Briggs lo guarda come si guarda una promessa. Poi parte. Il calcio è perfetto. Non bello. Perfetto. Diciassette a quattordici. E' il punteggio che cambia, ma è l’Irlanda che si trasforma. Da sfidante… a leggenda.

Ultimi minuti. Non è più solo rugby. È teatro. È guerra, una guerra di fede. La Nuova Zelanda attacca con tutto ciò che ha. Hireme, Itunu, Jensen. Sono nomi che pesano come tamburi. Avanzano. Martellano. Cercano il varco. Ogni placcaggio irlandese è una strofa. Non un gesto tecnico, ma un frammento di poesia fisica. È un linguaggio condiviso, fatto di corpi che parlano all’unisono. Come se Yeats avesse posato la penna e affidato i suoi versi alle spalle larghe di Rosser, Cantwell e Bourke. È rugby, sì. Ma è anche letteratura. Scritta sull’erba, sotto la pioggia, nel cuore della battaglia. Non difendono le irlandesi, no. Resistono. Come chi ha letto Yeats e lo ha tatuato nel cuore e sa che il verde non è solo il colore della maglia, è il colore della volontà.

E poi, lentamente, come chi ha capito che il tempo può essere alleato, le irlandesi iniziano a controllare. A respirare. A chiudere ogni porta. Fino a quel suono. Il fischio finale. Non è solo la fine di una partita. È l’inizio di una leggenda. L’Irlanda ha battuto le Black Ferns. Ha scalato l’Everest del rugby. E lo ha fatto con il sorriso di chi sa che "se hai fede e coraggio nulla è impossibile.”

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