Sondaggio sull'obbligo di una squadra femminile per i club di Serie A maschili: ecco cosa rivela il dibattito

Nel rugby italiano c’è una domanda che torna ciclicamente, ma che oggi sembra più urgente che mai: i club di Serie A Elite e Serie A maschile dovrebbero essere obbligati ad avere anche una squadra femminile?

Il nostro sondaggio online ha raccolto 130 voti: 74 favorevoli, 56 contrari. Una maggioranza netta, ma non travolgente. Segno che il tema divide, ma soprattutto che tocca nervi scoperti del nostro movimento. Dietro quei numeri, però, c’è molto di più: c’è un confronto che parla di cultura sportiva, di identità dei club, di modelli di sviluppo e di futuro. E soprattutto c’è una domanda di fondo: il rugby italiano è pronto a considerare il settore femminile non come un accessorio, ma come una parte strutturale del proprio ecosistema?

Il fronte del si: la necessità di riscrivere il contesto

Il fronte del sì si presenta con una convinzione chiara: senza un intervento strutturale, il rugby femminile continuerà a crescere troppo lentamente. Per i favorevoli, l’obbligo non è una forzatura, ma un modo per rompere inerzie culturali e dare finalmente al movimento femminile lo spazio che merita.

Un nodo culturale che non si può ignorare

La prima grande frattura tra i due fronti riguarda la lettura del contesto. Per chi sostiene l’obbligo, il rugby femminile non cresce perché non può crescere: non ha spazio, non ha priorità, non ha la stessa dignità del maschile. Non per mancanza di talento o passione, ma per un retaggio culturale che continua a pesare.

Da qui l’idea che l’obbligo possa essere un acceleratore: non una forzatura, ma un modo per rompere un circolo vizioso. Secondo questa visione, aspettare che il cambiamento avvenga spontaneamente significa condannare il femminile a un ruolo marginale per almeno altri venti anni.

Il femminile come risorsa, non come costo

Un altro argomento forte dei favorevoli riguarda la sostenibilità dei club. Molte giocatrici lo dicono apertamente: il rugby è ancora percepito come uno sport “da uomini”, e questo condiziona famiglie, insegnanti, dirigenti. Le ragazze arrivano tardi, arrivano in poche, arrivano spesso per caso. E quando arrivano, trovano strutture che non sempre le considerano parte integrante del club.

Molti commentatori sottolineano come il settore femminile, se sviluppato seriamente, possa diventare una risorsa: più tesserati, più famiglie coinvolte, più visibilità, più opportunità di finanziamento. In un movimento che soffre di calo numerico e di scarsa rilevanza mediatica, ignorare il potenziale del movimento femminile sarebbe miope. L’esempio internazionale è evidente: in Inghilterra e Francia il rugby femminile è ormai un asset strategico, capace di riempire stadi e attirare sponsor. Non è un caso che diversi dirigenti italiani parlino di “occasione da non perdere”.

C’è anche un tema di identità: un club che offre rugby a tutti — uomini, donne, bambini, veterani — è un club più moderno, più inclusivo, più radicato nel territorio. L’obbligo, in questa prospettiva, non è un’imposizione ma un invito a evolvere.


Il fronte del no: tra realismo, timori e modelli alternativi

Chi si oppone all'obbligo non lo fa per negare il valore o la dignità del movimento femminile. Anzi, quasi tutti i contrari riconoscono che il rugby femminile è importante e va sostenuto. Il punto è come

Il rischio di progetti improvvisati

Il primo timore riguarda la qualità. L’obbligo, dicono, rischia di produrre squadre costruite in fretta, senza basi solide, senza staff adeguato, senza una visione tecnica. Una squadra femminile nata solo per rispettare un regolamento è una squadra fragile, esposta a sciogliersi dopo una stagione, incapace di costruire un’identità. È un rischio che molti dirigenti conoscono bene: già oggi diversi club faticano a sostenere economicamente e strutturalmente il settore maschile, e l’idea di aggiungere un settore femminile “per forza” viene percepita come una ricetta per l’approssimazione. Non per cattiva volontà, ma per limiti strutturali.

Il vero problema è il vivaio

Secondo i contrari, il nodo non è l’obbligo ma la mancanza di ragazze che praticano sport dopo una certa età. E' un ragionamento più profondo, che riguarda la base del movimento. Secondo molti contrari, il problema non è la Serie A, ma ciò che viene prima. Il rugby femminile soffre di una carenza di numeri nelle fasce giovanili, soprattutto dopo i 13-14 anni, quando molte ragazze abbandonano lo sport. Senza un vivaio reale, senza Under 14 e Under 16 solide, senza un lavoro quotidiano nelle scuole e sul territorio, qualsiasi squadra senior rischia di essere un castello costruito sulla sabbia. L’obbligo, in questa prospettiva, interviene “a valle”, quando il vero nodo è “a monte”. E un movimento che non cresce dal basso non può reggere a lungo. Senza un settore giovanile forte, nessun obbligo può funzionare. Il rischio è creare squadre senior senza fondamenta, alimentate da reclutamento aggressivo o da atlete straniere.

Il modello dei club solo femminili

C’è poi una proposta alternativa, che alcuni contrari considerano più coerente con la storia sportiva italiana: la nascita di club femminili autonomi. È un modello che funziona da decenni in volley, basket, pallanuoto. Società guidate da donne, con staff dedicati, sponsor mirati, identità forti. Un ecosistema che non vive all'ombra del maschile, ma cammina con le proprie gambe. Per chi sostiene questa visione, il rugby femminile avrebbe tutto da guadagnare da una propria autonomia: più spazio, più voce, più leadership, più continuità. Non un settore “aggiunto” a un club maschile, ma un soggetto indipendente, capace di costruire la propria cultura. Secondo questa visione, l’autonomia favorisce identità, leadership femminile, motivazione e continuità.

La questione della libertà

Infine, c’è un argomento più filosofico, ma non per questo meno sentito: la libertà. Lo sport, dicono alcuni, non cresce per decreto. Un club deve investire nel femminile perché ci crede, non perché è costretto. L’obbligo rischia di generare resistenze, di alimentare progetti finti, di spostare risorse da altri settori, di creare tensioni interne. Per qualcuno, il fatto stesso che si debba parlare di obbligo è una sconfitta: se il femminile fosse davvero percepito come un valore, i club lo svilupperebbero spontaneamente.

Due visioni diverse dello stesso futuro

Il dibattito, in fondo, non è tra chi vuole il femminile e chi non lo vuole. È  l'incontro/scontro tra due modi diversi di immaginare lo sviluppo del rugby italiano.

  • Il fronte del sì vede l’obbligo come un motore di cambiamento culturale e strutturale.
  • Il fronte del no teme che l’obbligo produca effetti opposti a quelli desiderati, e propone percorsi più graduali o alternativi.

Entrambi, però, riconoscono che il femminile è una parte essenziale del futuro del rugby. E questo è forse il dato più importante che emerge dal sondaggio: non c’è più nessuno che metta in discussione il valore del movimento femminile. La discussione riguarda solo il metodo.

Conclusione: un’occasione per ripensare il rugby italiano

L’obbligo, da solo, non risolverà tutti i problemi. Ma il dibattito che ha generato — acceso, articolato, partecipato — è già un segnale di maturità. Il rugby italiano ha bisogno di crescere, di allargare la base, di rinnovarsi. Il movimento femminile può essere una leva straordinaria, ma solo se sostenuto da progetti seri, competenze adeguate e una visione condivisa. Che si scelga l’obbligo o altre strade, una cosa è chiara: il rugby femminile non è più un capitolo a parte. È parte della storia che il rugby italiano deve scrivere adesso.

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