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Rugby femminile ed il "non-significato" della parola professionismo

Il rugby femminile è spesso citato come uno degli sport in più rapida crescita al mondo, ma sta crescendo nella giusta direzione?

In una recente intervista, la vincitrice della Coppa del Mondo ed ex nazionale inglese, Claire Purdy, ha descritto perfettamente il quadro della situazione, permettendo a chi guarda dall'esterno di saperne di più su cosa è stato e su cosa possiamo aspettarci in futuro.

Ai tempi di Purdy, il rugby era in gran parte considerato un hobby; qualcosa che si faceva portando comunque avanti una carriera lavorativa a tempo pieno. Fortunatamente per lei, il suo datore di lavoro ha capito di cosa aveva bisogno e ha sempre concesso periodi sabbatici a lungo termine per assicurarsi che potesse concentrarsi sulla Coppa del Mondo. Nonostante quello che è successo in campo, Claire ha sempre saputo di avere un lavoro a cui tornare.

“Se qualcosa andava storto, come un grosso infortunio, ho sempre saputo di avere un lavoro sul quale fare affidamento, e per la maggior parte delle mie compagne di squadra era lo stesso, mentre ora le ragazze iniziano così giovani che il rugby è la cosa principale e unica nella loro vita, quindi non hanno necessariamente quella sicurezza”.

Grazie agli sviluppi nei percorsi dei giocatori e a una maggiore attenzione al reclutamento, le giocatrici iniziano a un'età molto più giovane. A prima vista, questo sembra un fattore molto positivo, le giocatrici che vengono coinvolte nel rugby in giovane età hanno molto più tempo da dedicare alla crescita delle competenze nel gioco ed all'acquisizione di esperienza. Pertanto, un numero quasi infinito di talenti d'élite si muove attraverso il sistema, con grande possibililità di raggiungerne l'elite. Questo accade (o comincia a farlo), anche in paesi che sono più indietro rispetto a Francia ed Inghilterra, come l'Italia, la Scozia o la Spagna.

Tuttavia, Purdy ha spiegato che questo potrebbe non essere così positivo come sembra: "La maggior parte delle giocatrici che arrivano al rugby (in Inghilterra) ora sono abbastanza giovani, hanno l'aspirazione di diventare una giocatrice di rugby professionista e quindi incanalano tutto ciò che hanno in questo progetto, il che è fantastico, ma spero per loro che abbiano preso in considerazione un piano B”.

Molti penserebbero che il passo naturale dopo una carriera nel rugby, anche se con opportunità piuttosto limitate per le donne, potrebbe essere quello di diventare allenatrice o commentatrice. Questa però non è sempre un'opzione.

“Cosa succederà tra 10 anni quando queste giocatrici si ritireranno e dovranno iniziare una carriera al di fuori del rugby? Certo, abbiamo visto alcune giocatrici passare a ruoli da commentatrice o da allenatrice, ma queste opportunità sono limitate".

Quello che stiamo cominciando a vedere nel rugby femminile è un bizzarro limbo. In Inghilterra le giocatrici sono considerate professioniste; tuttavia, non vengono loro concessi loro tutti i vantaggi che dovrebbero essere parte del pacchetto di una qualsiasi carriera professionale a tempo pieno.

Alcuni potrebbero suggerire che questo non è diverso nel rugby degli uomini, anche lì le carriere da giocatore sono di natura breve, con molti atleti che si ritirano senza nulla da fare dopo. In risposta a questo, possiamo però dire che i giocatori maschi possono spesso permettersi di mettere da parte un gruzzolo, più o meno consistente, per il loro ritiro, grazie a quanto vengono pagati per giocare rispetto alle loro controparti femminili. È anche importante tenere presente che le opportunità offerte per i commenti e le apparizioni sui media sono incomparabili tra giocatori maschi e femmine.

Ci sono troppi esempi per mostrare come il rugby femminile sia bloccato in questa strana via di mezzo. Dal punto di vista di chi è poco attento o guarda semplicemente dall'esterno, sembra che il rugby femminile stia crescendo e si muova nella giusta direzione. Tuttavia, per chi vive all'interno del movimento, è piuttosto chiaro che gli stessi problemi che c'erano all'inizio sono ancora chiaramente evidenti.

Spesso, in maniera molto critica, per rispondere a questo, i media hanno suggerito che le giocatrici, almeno in Inghilterra e Francia, sono ora in grado di avere dell sponsorizzazioni e degli accordi di branding personali come ulteriore entrata nel reddito, apparentemente questo è qualcosa che si è evoluto dai tempi in cui giocava Purdy.

Parlando dell'aspetto delle sponsorizzazioni, nella sua intervista Purdy ha detto: “A quel tempo non eravamo sommerse di sponsorizzazioni, la gente semplicemente non sapeva chi fossimo. Come giocatrici avevamo bisogno di sfruttare la maglia dell'Inghilterra a nostro vantaggio, ma non potevamo per conflitti di interesse, è stato davvero difficile”.

Questo sembra essere cambiato, con alcune delle ragazze inglesi ora in grado di costruire il proprio marchio personale associandosi a diverse aziende. Ad esempio, l'anno scorso Sarah Bern, Shaunagh Brown e Zoe Harrison hanno accettato contratti di sponsorizzazione con Umbro per diventare il primo gruppo di ambasciatrici per lo sport. Questo è fantastico, ma non lasciamoci ingannare, un accordo di branding non porta entrate quasi sufficienti nemmeno per pagare l'affitto.

La quantità di lavoro e dedizione necessaria per essere scelti per la squadra inglese è enorme, le giocatrici devono rimanere completamente concentrati sulle loro prestazioni per assicurarsi di essere selezionate per rappresentare il paese. Questo è vero in genere per tutte le nazionali, ma è evidente che il livello dell'Inghilterra sia al momento molto più alto di quello delle altre nazionali e che il numero delle aspiranti sia più del doppio di quello delle altre partecipanti al 6 Nazioni.

Ricordando quanto significasse per lei la maglia, Purdy ha condiviso un ricordo agrodolce: "Ricordo che sono andata a Twickenham per allenarmi, pochi giorni dopo aver perso la finale della Coppa Del Mondo del 2010, e la guardia di sicurezza mi ha guardato e ha detto: " Cosa ci fai qui, non hai appena perso?", sono passata, sono salita sul tapis roulant e ricordo solo di aver pianto a squarciagola". Giocare con la maglia della nazionale significa il mondo per queste donne, ma qual'è il prezzo da pagare per per questo mondo?

Guardando al futuro del rugby di club sia in Allianz Premier 15, che nella Elite 1 francese diversi club hanno ora dichiarato pubblicamente che offriranno contratti professionali a giovani giocatrici di rugby. Tuttavia, è importante che i club spieghino esattamente cosa significa "professionista". Se sei un professionista sei considerato un esperto, quindi dovresti essere pagato di conseguenza. Non è ancora chiaro nello specifico cosa verrà offerto alle giocatrici di questi club. Avranno uno stipendio? Avranno accesso a strutture di formazione a 5 stelle? Personale tecnico? Avranno le spese pagate? Niente di tutto ciò è chiaro.

Ciò che è chiaro, tuttavia, è un'ovvia incertezza che circonda il termine "professionista". Questa parola che è costantemente legata allo sport, viene spesa troppo fequentemente in maniera poco chiara, generando un'enorme quantità di confusione. Vedremo nei prossimi anni qualche chiarimento su cosa significhi il termine nello specifico per il rugby femminile con le sue ovvie conseguenze? Chissà?

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