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Un brutta sconfitta e 54 motivi per riflettere sul futuro del movimento femminile in Italia

Italia vs Irlanda, seconda giornata del Sei Nazioni: a Parma le Azzurre subiscono una sconfitta pesante, un 54-12 che non lascia spazio a dubbi. Fin da subito, il risultato ha alimentato il dibattito su quale sia al momento la condizione del movimento femminile in Italia, con numerosi commenti da parte di blog specializzati — o meno — nel rugby femminile. Piuttosto che ripetere critiche e tematiche tecniche già ampiamente discusse, intendo focalizzarmi su una riflessione più profonda, parlando di quale direzione stia prendendo il movimento femminile a livello internazionale e in che misura noi, come comunità ovale, fatta di club e Federazione oltreché di semplici appassionati stiamo fallendo nel supportare una crescita efficace e ambiziosa per le nostre ragazze. Partiamo dalle fondamenta per comprendere cosa serve davvero per invertire la rotta.

Il rugby femminile in tutte le nazioni che competono con noi nel Sei Nazioni (ma guardiamo anche a USA e Sudafrica) si è evoluto seguendo linee nettamente diverse rispetto ai modelli di realtà come Italia e Spagna che mancano di investimenti significativi e infrastrutture professionali. Nei Paesi leader come Inghilterra e Francia viene attuata una strategia chiara e diversificata per sviluppare il gioco, partendo dalle basi fino ad arrivare al livello d'élite.

Una delle differenze chiave è ovviamente rappresentata dall'istituzione di framework di investimento mirati. Ad esempio, iniziative come il programma Accelerate di World Rugby o Give It a Try di RFU e IRFU delineano piani completi per favorire la crescita del rugby femminile in questi paesi. Questi programmi creano collaborazioni con le federazioni nazionali, i governi e gli sponsor commerciali non solo per incrementare la partecipazione a livello di base, ma anche per realizzare percorsi d'alta performance. Vengono investite risorse per lo sviluppo dei talenti e per l'organizzazione di tornei internazionali competitivi, come il torneo a più livelli WXV. Tale approccio dimostra un impegno concreto nell'integrare elementi essenziali quali il miglioramento delle competenze degli allenatori, la strutturazione delle competizioni e programmi solidi per il benessere delle giocatrici. Nei Paesi in cui questi sistemi sono stati adottati si assiste a progressi rapidi, grande affluenza agli eventi principali e una crescente visibilità mediatica, tutti fattori che hanno contribuito a creare un ambiente realmente professionale per le atlete.

Un’altra differenza fondamentale risiede nell’enfasi posta sulle infrastrutture e sui sistemi di supporto. Nazioni come l'Inghilterra, la Nuova Zelanda, Francia e Australia, vantano strutture consolidate sia per la formazione degli allenatori sia per il benessere delle atlete. Consistenti risorse sono dedicate a centri d’allenamento all’avanguardia, a una formazione completa per gli allenatori e a sistemi di supporto sanitario che includono politiche di prevenzione degli infortuni e di sostegno alle famiglie. Questi elementi contribuiscono a mantenere elevati standard di prestazione sia a livello nazionale che nelle competizioni internazionali. Inoltre, tali Paesi hanno sviluppato percorsi ben definiti per i giovani atlete, assicurando che le promettenti nuove leve ricevano lo stesso tipo di supporto offerto alle giocatrici consolidate. Questo approccio strutturato allo sviluppo è in netto contrasto con ambienti che operano principalmente su basi amatoriali o di “pseudoprofessionalismo”, dove investimenti incoerenti portano a cicli di bassa partecipazione e a risultati competitivi limitati.

Infine, la strategia commerciale dietro il rugby femminile gioca un ruolo cruciale. Altre nazioni promuovono attivamente le loro squadre femminili tramite accordi di sponsorizzazione intelligenti e strategie mediali ben calibrate. Presenze da record alle partite e tornei di alto profilo hanno evidenziato il potenziale economico del rugby femminile, attirando ulteriori investimenti. Questo modello commerciale dinamico non solo sostiene le giocatrici attuali, ma getta anche le basi per il successo futuro, favorendo una cultura in cui il contributo delle donne nel rugby viene riconosciuto e celebrato come quello di atlete professioniste. La deliberata attenzione verso la visibilità e il coinvolgimento dei fan crea un circolo virtuoso di investimenti, eccellenza nelle prestazioni e successo commerciale, ben lontano dai modelli che mancano di tale sinergia.

In sintesi, mentre molte delle principali nazioni di rugby hanno adottato un approccio olistico e fortemente orientato al professionismo combinando investimenti strategici, strutture di allenamento e supporto di alto livello, e una commercializzazione aggressiva mentre altre restano limitate da un supporto inadeguato e da strutture di sviluppo frammentate. La dedizione ad aumentare il numero di partecipanti, a migliorare la formazione degli allenatori e le infrastrutture, e a sfruttare le opportunità commerciali distingue i modelli di successo dai sistemi più stagnanti. Questo approccio integrato non solo eleva la qualità del gioco, ma assicura anche la sostenibilità a lungo termine e la competitività globale del rugby femminile. Oltre a questi aspetti, vale la pena approfondire come l’evoluzione del rugby femminile rispecchi più ampi mutamenti sociali in tema di equità di genere nello sport e quali insegnamenti possano trarre altre discipline da queste strategie trasformative.

Dopo questo lungo cappello introduttivo, utile per capire a quale velocità si stia muovendo il rugby femminile in giro per il mondo e soprattutto tra le nostre competitor europee parliamo dell'Italia.

Numeri che Raccontano una Realtà Dura

In un panorama internazionale dove il rugby femminile sta vivendo una crescita esponenziale, il sistema italiano appare come un caso a parte: un insieme di scarse iniziative, investimenti negati e pratiche obsolete che relegano il rugby femminile italiano in una condizione di, incapacità di competere con le altre squadre del Sei Nazioni. Basta uno sguardo ai numeri: il numero delle praticanti nel post pandemia continua ad essere estremamente basso con poche migliaia di giocatrici attive, a dimostrazione dell’interesse ristrettissimo che il rugby femminile suscita sul nostro territorio. Mentre in altri Paesi le squadre femminili attraggono giovani talenti e investimenti significativi, in Italia il panorama resta desolante. Le atlete si trovano a dover lottare non solo in campo, ma anche contro la mancanza di un sistema strutturato che promuova e valorizzi lo sport femminile sin dalle fondamenta. Una situazione che porta inevitabilmente al declassamento rispetto alle realtà estere che, invece, hanno messo solide basi per lo sviluppo della disciplina.

Serie A Elite: un Campionato di bassa qualità

Il campionato nazionale, contrassegnato dall’ombrello della Serie A Elite, si presenta come una vetrina in cui il rugby femminile italiano non riesce a risplendere. È impossibile ignorare che il livello qualitativo della competizione resta ben al di sotto degli standard europei. La mancanza di un approccio professionale, di allenatori impegnati full time e di infrastrutture adeguate ha trasformato quello che dovrebbe essere un torneo di formazione per le atlete che devono competere a livello internazionale in una sorta di torneo chiuso con poche squadre in grado di fornire prestazioni che abbiano un buon standard di qualità e troppo poche partite di un livello che si avvicini minimamente a quello internazionale. Questo sistema, che non va oltre il piacere del fare sport a livello amatoriale, lascia le atlete prive del supporto necessario per competere in un contesto internazionale dove il lavoro quotidiano e la dedizione professionale sono la norma.

Investimenti mancanti e disinteresse cronico di tanti club

Un ulteriore falla del sistema è data dalla quasi totale assenza di investimenti, tanto da parte dei club quanto dalla Federazione Italiana Rugby. Mentre, in altri Paesi, le risorse finanziarie e strutturali fluiscono (o si trovano) per sostenere e ampliare il settore femminile, in Italia il disinteresse è palpabile. I club si limitano a trattare il rugby femminile come una sorta di “aggiunta”, poco lucrativa e poco in linea con le prospettive di crescita del club nel panorama nazionale. Questa mancanza di sostegno si traduce in opportunità mancate, nel decremento della competitività e, soprattutto, in una delusione per le atlete che si ritrovano abbandonate a se stesse in un ambiente non in grado di garantire lo sviluppo delle loro potenzialità.

Pseudo-professionismo: una maschera che nasconde l’inadeguatezza

Il sistema attuale che prevede dei contratti per sole 25 giocatrici azzurre, è definibile con il termine “pseudo-professionismo”, un sistema mira a dare l’idea di una certa organizzazione, senza però implementare le fondamenta di un vero e proprio modello professionale. Le atlete devono far i conti con strutture di allenamento di basso livello, un supporto organizzativo ridotto e una visibilità mediatica quasi inesistente. In un’epoca in cui il rugby femminile internazionale si sta trasformando, l’Italia si ritrova imprigionata in un circolo vizioso: poche atlete, pochi investimenti e risultati come quello di ieri che lasciano perplessi il pubblico e non attirano sponsor. Questo è un invito a riflettere sul perché in Italia il rugby femminile debba subire così tanto a livello strutturale e organizzativo e la risposta non può essere soltanto culturale.

Verso una Svolta Necessaria

L’appeal e la crescita del rugby femminile internazionale offrono un esempio da cui l’Italia dovrebbe trarre ispirazione. Tuttavia, la trasformazione non può aspettare ulteriormente: è necessario un cambiamento radicale e una vera consapevolezza del valore che lo sport femminile può avere sul piano sociale e atletico. La Federazione, insieme ai club, deve aprire gli occhi e investire in modo deciso: dalla formazione degli allenatori al potenziamento delle infrastrutture, fino ad arrivare a strategie di comunicazione e marketing volte a valorizzare le atlete. Solo così si potrà spezzare il ciclo dello pseudo-professionismo e dare inizio a una nuova era di competitività e rispetto, capace di competere al pari delle migliori realtà internazionali. In conclusione, se il movimento femminile italiano aspira davvero a partecipare con orgoglio al Sei Nazioni e ad emergere nel panorama mondiale, è urgente una revisione completa del sistema di sviluppo. La passività e il mantenimento di status quo non sono più accettabili: è il momento di un impegno concreto, di investimenti strutturali e di una visione ambiziosa che tenga conto del potenziale unico delle nostre giocatrici. Solo allora potremo dire che il rugby femminile italiano sta finalmente uscendo dall’ombra in cui sembra essere relegato, ma attenzione, il tempo passa, il treno corre veloce e come diceva Leonardo Pieraccioni nel film "i laureati", la ricreazione è finita!


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