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Mi chiamo Sofia, voglio fare la rugbista

Mi chiamo Sofia, ho sedici anni e un sogno grande quanto il cielo: essere una giocatrice di rugby. Amo correre con l'ovale tra le mani, sentire il fango sotto i tacchetti e l'adrenalina che mi fa pulsare il sangue nelle vene. Vivo in un paesino incastonato tra le colline del centro Italia, dove il rugby è un'eco lontana, uno sport "da uomini", come dicono e continuano a dirmi in tanti. Qui, le ragazze sono incoraggiate a volteggiare in tutù o a schiacciare palloni da pallavolo, ma l'idea di vederle placcare un'avversaria suscita solo risate e sguardi di disapprovazione.

La mia passione è nata un mattino d'inverno, a scuola quando ho potuto provare questo meraviglioso sport. Ho cominciato a cercare su YouTube video di partite di rugby femminile. Vedere quelle donne, forti e determinate, lottare per ogni centimetro di campo, mi ha folgorata. Ho iniziato a divorare video di allenamenti e partite, a immaginare me stessa in mezzo a loro. Ma ogni volta che provavo a parlarne, mi scontravo con un muro di scetticismo. "Il rugby è per i maschi", sentivo ripetere, come un mantra.

Anche a casa la musica era sempre la stessa. Mamma, con la sua voce preoccupata, mi metteva in guardia dai pericoli di uno sport così violento, suggerendomi sport più "adatti" a una ragazza. Papà, pur essendo un appassionato di sport, si limitava a scuotere la testa, convinto che il rugby fosse un'attività troppo "maschile" per me.

Ma io non mi sono arresa. Ho iniziato a cercare altre ragazze con la mia stessa passione, e ho scoperto un piccolo gruppo di rugbiste in erba, sparse per la provincia e si allenavano in una città poco distante dalla mia. Ricordo ancora il mio primo allenamento insieme a loro, in un campo di terra battuta con i pali che parevano abbastanza improvvisati. Abbiamo iniziato ad allenarci insieme una volta alla settimana. Il nostro è un rugby di strada, fatto di passione e improvvisazione, ma per noi è tutto.

La realtà del rugby femminile in Italia è dura. Le squadre sono poche, le strutture inadeguate, i finanziamenti scarsi. Ci alleniamo su campi malridotti, spesso senza attrezzature adeguate, con allenatori improvvisati. Spesso dobbiamo autofinanziarci per partecipare ai tornei. Ogni volta che guardo quello che hanno i ragazzi mi viene un nodo alla gola.

Le sfide non si fermano mai solo al campo. Infortuni, sconfitte, il peso della delusione: tutto sembra congiurare contro di noi. Ma ogni volta che cado, le mie compagne mi aiutano a rialzarmi. Siamo una squadra, dentro e fuori dal campo, legate da una passione comune e dalla voglia di dimostrare che il rugby non ha genere.

Con il tempo, abbiamo iniziato a farci notare. Alcuni ragazzi della squadra maschile hanno iniziato a guardarci giocare, e le famiglie di alcune delle mie compagne ci sostengono con entusiasmo. Abbiamo creato una piccola comunità, un'isola felice dove possiamo essere noi stesse, rugbiste senza paura.

Oggi, mentre allaccio i tacchetti e indosso la mia maglia, mi sento parte di qualcosa di più grande. Sento di far parte di un gruppo di persone che sta cambiando le cose, che sta abbattendo i pregiudizi e aprendo la strada a tutte le ragazze che sognano di giocare a rugby. La strada è ancora lunga, ma insieme possiamo farcela. Il mio sogno è più forte di qualsiasi ostacolo. Mi chiamo Sofia. Voglio fare la rugbista.

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