Il rugby femminile in Italia, tra potenziale e il nodo della base: la visione di Checchinato

Questo articolo è basato sull'intervento di Carlo Checchinato come ospite della trasmissione "Parliamo di Rugby" sul canale YouTube "Rugby Zed10. Checchinato, Direttore Commerciale della Federazione Italiana Rugby (FIR), è stato l'ospite della puntata del "mercoledì ovale".

Direttore Commerciale della Federazione Italiana Rugby (FIR), Carlo Checchinato, si è espresso con grande ottimismo riguardo al futuro del rugby femminile in Italia. Pur riconoscendo le sfide strutturali e culturali che il movimento affronta, Checchinato non ha dubbi sul potenziale di crescita e sulla qualità delle atlete.

Ecco un'analisi della sua visione sullo sviluppo del settore femminile.

Fede nello sport femminile e vantaggi mediatici

Checchinato ha dichiarato di credere "molto nello sport femminile in generale" e che il rugby in particolare possiede "un grandissimo potenziale" nel panorama del rugby italiano. Sottolinea che questo sport possiede "determinate caratteristiche che lo rendono ancora più interessante molto probabilmente dal punto di vista mediatico e e di storytelling".

Il nodo della base e degli stereotipi

Nonostante il forte potenziale, la strada per l’affermazione richiede tempo e processi ben definiti. La sfida principale in Italia è legata alla base numerica: "La realtà è che la base numerica che dove ancora ci muoviamo è molto molto limitata e se lo è limitata a livello maschile a livello femminile lo è ancora ancora di più". È fondamentale che il numero di praticanti cresca per creare una community più ampia che possa seguire l'attività, generando un interesse che proceda parallelamente ai risultati sportivi.

Inoltre, Checchinato evidenzia la necessità di superare alcune barriere culturali:

"Si devono vincere una serie di reticenze ricreate degli stereotipi dove lo sport di contatto per le donne tutta una serie di altre cose che ancora creano una certa barriera ma che piano piano col tempo cercheremo di superare e si stanno sempre più diciamo limitando".

Cautela nel confronto con il rugby internazionale

Nel discutere i modelli di successo, come quello inglese, Checchinato mette in guardia dall'applicare gli stessi standard all'Italia. L'Inghilterra ha avuto una crescita notevole grazie a investimenti maggiori e una base numerica "enormemente più grande rispetto alla nostra".

Egli fa notare che tale successo non è stato universalmente replicato, specificando che non "l'ha fatto il Galles e non l'ha fatto l'Irlanda non l'ha fatto e non l'ha fatto la Scozia" e che la Francia lo ha raggiunto solo "parzialmente". Il rugby femminile italiano, sebbene debba fare "molta strada," ha comunque la capacità di svilupparsi.

Elogio alla tecnica e competenza delle atlete

Nonostante le difficoltà strutturali, Checchinato riserva parole di profonda ammirazione per le atlete italiane e i loro risultati. Le ragazze ottengono risultati "abbastanza interessanti" nonostante la base ristretta. Le definisce "super brave" ed è rimasto colpito dalla loro "tenacia," "convinzione," ma soprattutto dalla loro "proprietà tecnica tattica".

Un punto cruciale della sua osservazione è la loro intelligenza di gioco:

"Ci sono tante ragazze che hanno più conoscenza registica di tanti ragazzi che giocano".

Egli conclude lodando la loro competenza, notando che si vede "meno ignoranza irruenza fisica, ma sicuramente molta molta competenza," un aspetto per cui meritano un "tanto di cappello". Rispondendo a un commento sulla mancanza di "testosterone," Checchinato ribadisce l'essenziale: "però sanno giocare". 

Sulla base di quanto sostenuto in tono così ottimistico da Carlo Checchinato nel suo intervento mi sento di fare una considerazione: oltre l’ottimismo, serve concretezza.

Le parole di Carlo Checchinato dipingono un quadro ottimistico, quasi idealizzato, del futuro del rugby femminile in Italia. Ma dietro l’enfasi sulla “tenacia” e sulla “competenza” delle atlete, si cela una narrazione che rischia di essere più retorica che strategica. Il riconoscimento delle barriere culturali e della base numerica limitata è corretto, ma non basta enunciarle: serve un piano concreto, misurabile, con obiettivi chiari e investimenti mirati.

Checchinato invita alla cautela nel confronto con i modelli internazionali, ma questa prudenza rischia di diventare alibi. Se l’Inghilterra ha investito e raccolto risultati, perché l’Italia non dovrebbe ambire a fare lo stesso? Continuare a sottolineare ciò che non abbiamo, invece di costruire ciò che potremmo avere, è una forma di immobilismo mascherato da realismo.

Infine, l’elogio alle atlete, per quanto sincero, suona come una consolazione: “sanno giocare” non è una strategia federale, è un dato di fatto. Il rugby femminile italiano merita più di complimenti: merita strutture, visibilità, programmazione e rispetto. E questo non si ottiene con interviste entusiaste, ma con scelte coraggiose e coerenti.

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