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Emily: dal mito di Valentine alla leggenda di Scarratt, quando il rugby ha un nome e una storia

Leicester. Non è Londra. Non ha il fascino delle metropoli, né le luci dei grandi palcoscenici. È Inghilterra centrale. È terra di rugby. Di fango. Di silenzi rotti solo dal suono sordo di una palla ovale che rimbalza male. Non spesso, sempre. Perché il rugby non è geometria. È caos. È intuizione. È cuore.

Emily Scarratt nasce lì. Nel 1990. In una fattoria. Non ci sono parquet lucidati. Non ci sono palestre con specchi e luci al neon. C’è solo terra. E una palla. Che non è rotonda. A diciotto anni, le arriva una proposta. Di quelle che cambiano la vita. Una borsa di studio per giocare a basket negli Stati Uniti. Il sogno americano. Le cheerleader, i campus, le partite in diretta nazionale. E lei… Lei dice no. Dice no a tutto questo. Per inseguire un sogno che, all’epoca, non esisteva nemmeno. Perché il rugby femminile era ancora una promessa non mantenuta. Un’idea. Un’intuizione.

Ma Emily… Emily aveva già deciso. E quando una come lei decide, non c’è geografia, non c’è glamour, non c’è basket che tenga. C’è solo il rugby. E quella palla che rimbalza male. Sempre. Emily. Un nome come tanti. Ma nel rugby… Nel rugby, quel nome ha un’eco. Un’ombra lunga. Un’origine.


Emily Valentine. Enniskillen, Irlanda, 1887. La prima. La prima donna a giocare a rugby. In un’epoca in cui il rugby non era per signore. In un tempo in cui il rugby era un affare da uomini, punto. Ma per lei no. Emily Valentine non chiese il permesso. Un giorno, una maglia, una partita. Non fu solo un gesto. Fu un atto di disobbedienza elegante, un colpo di genio ribelle. Il suo nome, Emily, sarebbe tornato un secolo dopo. E avrebbe portato con sé lo stesso spirito: quello di chi non accetta i confini, li attraversa.

Emily Scarratt. Inghilterra, 1990. Un altro tempo. Un’altra storia. Ma lo stesso nome. Emily. Coincidenza? Forse. O forse no. Perché il rugby ha una memoria strana. Non scrive tutto, ma conserva. Nei nomi, nei gesti, nelle traiettorie storte di una palla ovale. E allora viene da chiedersi: quante Emily servono per cambiare la storia? La prima ha aperto una porta. La seconda l’ha spalancata. Con grazia. Con ferocia. Con quel passo che non è solo corsa. È eredità. Emily Scarratt. Forse non lo sa. O forse sì. Ma ogni volta che entra in campo, Emily Valentine sorride. Da qualche parte. Tra le pieghe del tempo. Tra le pagine non scritte del rugby e della storia.

Vent’anni. Non è una promessa. Le promesse sono per chi deve ancora dimostrare. Emily è già una certezza. Gioca centro. Ma potrebbe giocare ovunque. Perché ha visione. Ha piedi. Ha testa. E soprattutto… ha tempo. Quel tempo che rallenta quando lei ha il pallone. Quel tempo che gli altri rincorrono. Lei no. Lei lo anticipa.

Twickenham Stoop. Agosto 2010. Finale mondiale. L’Inghilterra c’è. Contro chi? Contro le Black Ferns. Le invincibili neozelandesi. Quelle che non sbagliano mai. Quelle che non perdonano. Emily gioca. Combatte. Ma non basta. Finisce 13–10. Una sconfitta. Una ferita. Di quelle che non si rimarginano, ma che insegnano. Che scolpiscono. Perché da quel giorno, nessuno la toglierà più da lì. Dal campo. Dal cuore della squadra. Dal rugby. Perché certe atlete non si raccontano con le statistiche. Si raccontano con le cicatrici.

Parigi. Agosto 2014. Finale mondiale. Ancora una volta. Cambiano le avversarie, Canada, ma la tensione è la stessa. Quella che ti stringe il petto e ti rallenta il respiro. Ma stavolta… Stavolta c’è Emily. Non solo in campo. Ovunque. Segna 16 punti. Corre. Calcia. Dirige. Come se avesse un metronomo nel cervello e una mappa invisibile sotto i tacchetti. È ovunque. Come il vento. Come il destino. L’Inghilterra vince. Dal 1994 non succedeva. Vent’anni di attesa. Di sogni sospesi. Di speranze cucite sulle maglie bianche. 

E lei? Lei diventa leggenda. Non solo per quello che fa. Ma per come lo fa. Con eleganza. Con ferocia. Con grazia. Come se il rugby fosse danza. E lei… La prima ballerina. In uno stadio che diventa teatro. In una finale che diventa storia. Emily Scarratt è il rugby, come non l’avevamo mai visto.

Il tempo passa. Le finali si susseguono. Come onde che si infrangono sulla stessa spiaggia. Belfast 2017 e Auckland 2022 ancora loro: le Black Ferns. Ancora sconfitte. Ancora quel sapore amaro che non si dimentica. Ma il rugby è anche questo: memoria e redenzione.

Poi arriva il 2023. E non è una finale. È il buio. Una lesione al collo. Grave. Silenziosa. Lunga. Tredici mesi fuori. Tredici mesi a chiedersi se tornerà. Se potrà ancora indossare quella maglia bianca. Quella maglia che non è solo tessuto. È identità. È appartenenza.

Emily non è fatta per arrendersi. Non lo è mai stata. Torna. E quando torna… È come se il tempo si fosse fermato. Come se il rugby l’avesse aspettata. Come se ogni rimbalzo storto della palla ovale fosse stato solo un modo per dirle: “Bentornata.” Perché certe giocatrici non lasciano mai il campo. Lo abitano. Lo trasformano. E quando tornano… È il rugby che torna con loro.

2025. Coppa del Mondo. Inghilterra. Casa. Non serve aggiungere altro. Perché certe parole bastano da sole. Emily Scarratt viene convocata. Per la quinta volta. Cinque Mondiali. Un record. Nessuna inglese ci era mai riuscita. Mai. Lei lo scopre per caso. Come se fosse una notizia qualunque: “Non sapevo nemmeno di essere la prima. È super cool.” Dice così. Con quella semplicità che solo i grandi hanno. Quelli che non cercano il riflettore. Ma lo attirano. Senza volerlo. Perché Emily non gioca per i record. Non li insegue. Li lascia dietro. Come tracce. Come impronte. Gioca per il gioco. Per la squadra. Per quel sogno che ha inseguito da bambina, tra i campi di Leicester, tra il fango e il silenzio, tra una palla che rimbalza male e un futuro che rimbalzava peggio.

E oggi, a 35 anni, quel sogno è diventato storia. Non solo sua. Di tutti. Di chi ama il rugby. Di chi crede che l’eleganza possa convivere con la ferocia. Di chi sa che certe leggende non si annunciano. Si riconoscono. Perché il rugby, a volte, non ha bisogno di parole. Ha bisogno di presenze. Di simboli. Di nomi che si ripetono come ritornelli di una canzone antica. Emily Valentine ha acceso la scintilla. Emily Scarratt l’ha trasformata in fiamma.

E ogni volta che quella maglia bianca si muove sul campo, non è solo una giocatrice. È una storia che continua. È un passato che si fa presente. È il rugby che si ricorda di sé. E allora sì, forse è un caso. O forse è destino. Ma quando Emily Scarratt calcia, corre, segna… il tempo si piega. La storia applaude. E quel rugby, nato ribelle tra fango e poesia, proprio in Inghilterra, si fa sinfonia visiva e ritrova la sua prima ballerina. Emily Scarratt. Cinque Mondiali, una sola maglia. Bianca. Come se il tempo non l’avesse mai sfiorata.

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