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Dalla prima meta all'ultimo placcaggio: la rivalità leggendaria tra Red Roses e Black Ferns in Coppa del Mondo

Nel mondo del rugby femminile, c'è una storia che più di ogni altra ha infiammato i cuori e riempito gli stadi: il duello epico tra Inghilterra e Nuova Zelanda. Non è solo una partita, è una vera e propria saga, un confronto tra due filosofie di gioco, due potenze inarrestabili che si sono incontrate ben cinque volte nella finale della Coppa del Mondo. Ogni volta, un capitolo nuovo di un'avventura che ha ridefinito il rugby femminile. Preparatevi a un viaggio nel tempo, tra placcaggi furiosi, mete mozzafiato e cuori infranti, per scoprire come Red Roses e Black Ferns hanno scritto alcune delle pagine più belle e drammatiche di questo sport.

2002: la nascita di una grande rivalità

Immaginate lo Stadio Olimpico Lluís Companys, il sole catalano che accarezza il prato e un migliaio di spettatori che sanno di essere lì per assistere a qualcosa di storico. Da una parte l’Inghilterra, affamata di rivincita, con il ricordo ancora vivo della semifinale persa nel 1998. Dall’altra, le Black Ferns, la Nuova Zelanda, pronte a difendere il titolo con la forza di chi sa che il rugby non è solo sport — è identità.

La partita è una danza di tensione e strategia. L’Inghilterra parte forte: Shelley Rae piazza due calci di punizione e un drop, portando le sue avanti. Ma le neozelandesi non si scompongono. Tammi Wilson risponde con due piazzati, e poi arriva la prima svolta: Monique Hirovanaa sfonda la linea e segna la meta che ribalta il punteggio. Nel secondo tempo, l’Inghilterra cerca di reagire, ma viene schiacciata nella propria metà campo. Anche con una giocatrice in meno per un cartellino giallo, le Black Ferns resistono. Cheryl Waaka segna la seconda meta, e Hannah Myers chiude i conti con un calcio preciso: 19-9.

Non fu solo una vittoria. Fu il secondo titolo mondiale consecutivo per la Nuova Zelanda. Fu l’inizio di una rivalità epica con l’Inghilterra, che avrebbe segnato le edizioni successive. Fu Barcellona, 2002. E fu rugby, quello vero.


2006: il consolidamento della supremazia neozelandese

Quattro anni dopo, in Canada, il copione sembrò ripetersi. Le due squadre si ritrovarono, più forti e determinate che mai. Accadde in una sera d'estate nel cuore del Nord America. Edmonton. 2006. Il cielo minacciava pioggia, ma in campo non c’era tempesta — ma ordine, precisione, tensione. Le Red Roses avanzano, non sono più le debuttanti timorose degli anni passati. Ora giocano con un misto di rabbia sottopelle e consapevolezza tattica. Il loro sguardo è fisso: il titolo mondiale. E poi ci sono loro. Le Black Ferns. Sempre sorridenti ma letali, chirurgiche. Il volto della calma sotto pressione. Quando l’Inghilterra accelera, loro respirano. Quando l’Inghilterra sbaglia, loro colpiscono. Non è arroganza: è mestiere, è dna. L’arte di costruire successi nel silenzio dei piccoli gesti. 

Il primo tempo è un duello fisico e mentale. Le inglesi pressano, costringono le Black Ferns a chiudersi nella loro metà campo. Un calcio piazzato di Karen Andrew rompe il ghiaccio. L’Inghilterra è avanti. Ma poi, come se la partita obbedisse a un copione segreto, arriva la risposta. Un piazzato di Emma Jensen e le neozelandesi si svegliano. Un break fulmineo di di Monalisa Codling, e la palla vola in meta. È il marchio di fabbrica delle Black Ferns: pazienza, poi fulmine.

Nel secondo tempo la tensione è altissima. Le inglesi segnano ancora, tenute in vita dalla leadership feroce di Catherine Spencer e dai placcaggi salvifici di Maggie Alphonsi. Ma ogni piccolo errore costa caro. La Nuova Zelanda non spreca niente. Ogni mischia è una possibilità, ogni touche una minaccia. La meta decisiva arriva al 70°, con una combinazione che sembra coreografata da un direttore d’orchestra silenzioso: fase dopo fase, le Black Ferns avanzano, e alla fine è Victoria Heighway che schiaccia in meta con rabbia e grazia.

Il punteggio finale dice 25-17. La terza corona consecutiva. Quarta in totale. Ma il vero risultato non è nel tabellone: è in quella sottile distanza tra le due squadre. Un passo. Sempre un passo. Che l’Inghilterra non riesce a colmare. Non ancora. Ma come disse successivamente Gary Street, futuro coach inglese campione del mondo: “Quella distanza, apparentemente incolmabile, era il campo di allenamento ideale. Perché certe squadre non perdono: apprendono.”


2010: il cuore spezzato di Twickenham Stoop

Twickenham Stoop, 5 settembre 2010. Il cielo sopra Londra è terso, ma l’atmosfera è elettrica. Dentro lo stadio, ogni seggiolino è occupato da un cuore che batte all’unisono per le Red Roses. È la finale. È casa. È il momento. Non era solo una partita. Era un rito collettivo. Un’Inghilterra che non voleva vincere: voleva redimersi. Dopo anni di rincorse, di sogni infranti, di finali sfuggite per un soffio, ora c’era tutto: il pubblico, la forma, la fame. E c’era anche il coraggio. Quello che si vede nei placcaggi di Alphonsi, nei break di Waterman, nei calci chirurgici di Katy McLeanMa il rugby, come la vita, non segue il copione che ci scriviamo nel cuore.

Le Black Ferns entrano in campo con la calma di chi ha già vinto. Ma quella sera, il destino sembra volerle mettere alla prova. Tre cartellini gialli. Tre. In una finale mondiale. È come giocare a scacchi senza regina. Eppure, non crollano. Si compattano. Si trasformano in un organismo difensivo perfetto, dove ogni placcaggio è una dichiarazione di intenti. L’Inghilterra attacca, spinge, sogna. Ma la Nuova Zelanda resiste. E poi colpisce con Carla Hohepa. La risposta inglese arriva con la meta di Charlotte Barras ed il piede di Katy McLean, ma sarà invece quello di Kelly Brazier con due piazzati nel secondo tempo a fare la differenza. Il tabellino finale dice 13-10 per le neozelandesi. Un punteggio che non racconta tutto. Perché quella partita fu un poema epico. Fu la dimostrazione che il talento può vacillare, ma la disciplina no. Che la pressione può schiacciare, ma anche forgiare.

Quella sera, Twickenham Stoop non vide solo una vittoria. Vide una lezione. Le Black Ferns non vinsero perché erano più forti. Vinsero perché erano più lucide. Più resilienti. Più capaci di trasformare il caos in ordine. E l’Inghilterra? Non perse. Imparò. Anche quella volta. Perché certe sconfitte non si cancellano. Si scolpiscono. E diventano fondamenta.


2017: uno spettacolo indimenticabile

La macchina del tempo fa un salto in avanti, arriviamo al 2017, in Irlanda del Nord, precisamente a Belfast. E' il 26 agosto 2017. Il Ravenhill Stadium è un teatro pieno, carico di tensione e bellezza. L’aria è densa, quasi elettrica. Le tribune sono gremite, 17.000 spettatori che non sono lì solo per vedere una partita. Sono lì per assistere a una resa dei conti. L’Inghilterra, campionessa in carica, contro la Nuova Zelanda, le Black Ferns, affamate di riconquistare il trono perduto.

Come tutte le altre, anche questa non era solo una finale, era una collisione tra due filosofie di rugby. Le Red Roses entrano in campo con la compostezza di chi ha già vinto. E lo dimostrano subito: due mete nei primi venti minuti, firmate da Scarratt e Thompson, che fanno tremare le fondamenta del Ravenhill. Il pubblico inglese sogna. Il titolo sembra a portata di mano. Ma poi accade qualcosa. Un cambio di ritmo. Un cambio di tono. Le Black Ferns iniziano a suonare la loro sinfonia. E la direttrice d’orchestra ha un nome: Portia Woodman. Ala fulminea, movimenti da ballerina e potenza da sprinter. Segna una meta che è più di un punto: è un manifesto. E non è sola. Toka Natua, la pilona che non ti aspetti, firma una tripletta. Tre mete in una finale mondiale. Come se fosse normale. Il secondo tempo è un uragano. Thompson e Noel-Smith riportano avanti l'Inghilterra, ma le neozelandesi non cedono e rispondono con Selica Winiata e Kendra Cocksedge e alla fine segnano sette mete in totale, trasformando ogni possesso in un’opera d’arte. L’Inghilterra non molla, risponde, lotta. Ma è come cercare di contenere l’oceano con le mani. 

Finisce 41-32. Un punteggio che racconta tutto: spettacolo, talento, dominio. La Nuova Zelanda torna regina. Il quinto titolo mondiale. Ma l’Inghilterra, pur sconfitta, esce più forte. Perché certe partite non si perdono: si attraversano. E diventano promesse. Promesse di future battaglie, di placcaggi all’ultimo respiro, di rivalità che non conosce fine.


2021 (giocata nel 2022): la finale dei Record a Eden Park

Auckland, Eden Park. 12 novembre 2022. L’atmosfera è carica di tensione. Cinque anni di attesa, una pandemia che ha congelato il tempo, e poi finalmente: una nuova resa dei conti. Inghilterra contro Nuova Zelanda. Le regine del rugby femminile si ritrovano ancora una volta, come se il destino non avesse voluto altro.

Una narrazione epica, un poema in 80 minuti. L’Inghilterra arriva con 30 vittorie consecutive, una striscia che sembra scolpita nel marmo. Una macchina da guerra, precisa, implacabile. Le Red Roses non giocano a rugby. Lo scolpiscono. Ma Eden Park non è un campo qualunque. È un santuario. E quel giorno, 42.579 cuori neozelandesi battono all’unisono.

Passano tre minuti Ellie Kildunne buca la difesa neozelandese e segna. Sembra l’inizio di un monologo. Ma poi, al diciottesimo, il colpo di scena: cartellino rosso a Lydia Thompson per un placcaggio alto su Portia Woodman. La regina delle ali esce dal campo, stordita, ma l’Inghilterra resta in 14 giocatrici. Per 62 minuti. In una finale mondiale. Contro le padrone di casa. Eppure, le inglesi non si piegano. Amy Cokayne guida una maul straripante, segna due mete, e la mischia inglese diventa un muro di granito. Le Red Roses combattono come se fossero in 16. Ma le Black Ferns hanno il vento in poppa e il talento nelle mani. Leti-I’iga, Tui, Waaka: nomi che diventano leggenda. Giocate che sembrano coreografie. Il punteggio oscilla, come un pendolo impazzito.

Ultimi minuti. 31-29 per l’Inghilterra. Ma la Nuova Zelanda non è mai doma. Una maul perfetta, una spinta collettiva, e Awhina Tangen-Wainohu schiaccia oltre la linea. 34-31. Eden Park esplode. Il sesto titolo mondiale è realtà. Questa non è solo una vittoria. È una epitome del rugby, fatta di cuore. Di cuore, di sostegno, di resilienza. L’Inghilterra, sconfitta, esce come vincitrice morale. Ha giocato in 14, ha sfiorato l’impresa, ha ispirato il mondo. E ha promesso che tornerà nel 2025.

Il 2025 è adesso. Siamo pronti a vivere un'altra memorabile pagina di questa epica rivalità. Immaginate due identità che sembrano nate per opporsi. Due anime del rugby che, ogni volta che si sfiorano su un campo, non si limitano a giocare: esprimono. Da una parte, l’Inghilterra: ordine, metodo, rigore tattico. Il pack è un fortino mobile, capace di avanzare come un esercito in formazione. Gli schemi sono calcolati al millimetro, le fasi di gioco scandite come movimenti di un’orchestra classica. Il loro rugby è geometria, potenza e previsione. Dall’altra, la Nuova Zelanda: un’altra dimensione. Il loro rugby è jazz, improvvisazione pura. È un passaggio no-look che scavalca tre avversarie, una corsa lungo la fascia che scardina la logica, una meta che nasce dal nulla e finisce nell’eternità. Non seguono il copione, lo riscrivono mentre lo interpretano. Ogni azione è una pennellata su una tela che non conosce margini.

Questa rivalità non è soltanto sport. È letteratura. È cinema. Ogni confronto è un episodio di un’opera in continua evoluzione, dove la trama cambia, ma il cuore resta intatto. Le finali tra queste due squadre non sono partite: sono capitoli di una saga scritta con il sudore, i graffi sulla pelle, gli sguardi al cielo dopo una meta all’ultimo minuto. Quando l’Inghilterra e la Nuova Zelanda si affrontano, il rugby femminile si eleva. Diventa epica. E ricorda a tutti che questo sport non è solo placcaggi e mete — è poesia in movimento.

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