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Marea nera: lo tsunami Woodman si abbatte sulla Coppa del Mondo

C’è un momento, nella storia del rugby femminile, in cui il tempo sembra fermarsi. Non è un drop, non è una meta. È una corsa. Ed è una corsa che non si dimentica. Non ha bisogno di replay, né di statistiche. È la corsa di Portia Woodman. Una freccia nera che parte da Kaikohe, un piccolo angolo della Nuova Zelanda, e attraversa il mondo. Una bambina che sognava di diventare come suo padre, Kawhena Woodman, All Black negli anni ’80. Ma il rugby, per lei, era ancora un’eco lontano. Lei danzava, faceva atletica e netball. Faceva tutto, tranne rugby.

Poi, un giorno, il destino si presenta. Non ha la forma di una medaglia, né il suono di un applauso. Ha la forma di un pallone ovale. Un oggetto che non rotola come dovrebbe, che sfugge, che tradisce. Ma che, nelle mani giuste, diventa poesia. Portia lo guarda. Lo prende. Lo stringe. Come se avesse sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivato. Come se quel pallone fosse stato lì, in attesa, in silenzio, tra le pieghe del tempo e le traiettorie del vento.

E' il 2012. La Nuova Zelanda cerca profili nuovi per il rugby a sette. Lei si presenta. Non ha esperienza. Ha solo gambe che volano e occhi che vedono prima. La selezionano. La mettono in campo. E il campo, da quel giorno, non sarà mai più lo stesso. Portia non lo lascia più, quel pallone. Lo porta con sé in ogni corsa, in ogni meta, in ogni sogno. Come se fosse un’estensione del suo corpo. Come se fosse il suo destino, finalmente svelato.

Auckland. Eden Park. Il tempio. Lì dove gli All Blacks hanno scritto pagine che odorano di leggenda. È il 28 agosto 2013. Il giorno dopo il suo ventiduesimo compleanno. Portia Woodman debutta nel rugby a XV. Contro l’Inghilterra. Non una squadra qualunque. L’Inghilterra è l’antagonista perfetta. La squadra che non ti regala nulla. Che ti guarda negli occhi e ti chiede: “Sei pronta?” Lei lo è. Non lo dice. Lo mostra.

Il pubblico è lì, ma non sa ancora cosa sta per vedere. Portia entra in campo con quella calma che hanno solo gli atleti che sanno di appartenere a qualcosa di più grande. Non è solo una partita. È un passaggio di testimone. Dal rugby a 7 al rugby a XV. Dalla promessa alla realtà. Il pallone le arriva. Lei lo prende. E inizia a correre. Ma non è una corsa qualsiasi. È una corsa che sembra scritta. Come se il destino avesse deciso di usare la penna d’oro, quella che si usa solo per i capitoli che resteranno. Quel giorno, Portia non segna. Non entra nel tabellino. Non alza le braccia. Non corre sotto i pali. Ma segna qualcosa di più profondo. Segna il rugby. Perché da quel momento, ogni volta che lei scende in campo, il gioco cambia. Non nel punteggio. Nel ritmo. Nel battito. Nel modo in cui le compagne la cercano con lo sguardo, come si cerca il nord in mezzo alla nebbia. La percezione cambia. Il pubblico non guarda più solo la palla. Guarda lei. Guarda come si muove, come accelera, dove aspetta. Come se il rugby, per un istante, diventasse solo una questione di tempo e di spazio e Portia fosse la chiave per decifrarlo.

Non ha bisogno di segnare per lasciare il segno. Perché ci sono atleti che scrivono la storia con le statistiche e altri che la scolpiscono nel tempo, come fa la marea con la costa. Portia è una di loro. Non esplode. Non invade. Sale. Silenziosa, costante, inevitabile. E quando te ne accorgi, il paesaggio è cambiato. Il rugby è cambiato. Lei non ha bisogno di travolgere per farsi sentire. Le basta esserci. Come una marea che non chiede il permesso. Solo rispetto. E Eden Park, quel giorno, non applaude solo una giocatrice. Applaude l’inizio di una storia. Una storia che non si misura in numeri, ma in brividi.

Irlanda, agosto 2017. La terra verde, quella delle leggende celtiche e delle piogge improvvise, ospita la Coppa del Mondo femminile. Le Black Ferns arrivano con un obiettivo preciso: riprendersi il trono. Non è una frase fatta. È una missione. Portia Woodman è lì. Non come protagonista annunciata. Ma come arma segreta. Come quella carta che si tiene nascosta fino al momento giusto. Portia non è solo una giocatrice. È un’idea. Un concetto. Un modo di stare in campo che non si insegna. Si ammira.

Contro Hong Kong, nella fase a gironi, succede qualcosa che non si era mai visto. 121 a 0. Sì, centoventuno. Otto mete solo di Portia. Otto. Ma lei non esulta da sola. Non alza le braccia al cielo come chi cerca la gloria personale. Lei abbraccia. Sorride. Condivide. Come se ogni meta fosse un dono collettivo. Come se il successo fosse un abbraccio che attraversa la linea di meta.

Poi arriva la semifinale. Contro gli Stati Uniti, un duello di stili, di velocità, di visioni. Il punteggio è stretto. 8 a 7 per la Nuova Zelanda. Minuto 25. ;Mischia sulla linea dei 10 metri americani. Kendra Cocksedge, la mediana, riceve il pallone. E lo dà a lei. Portia. Che non è sulla fascia. È in mezzo al campo. Fuori posizione? No. Fuori dal tempo. Quando riceve il pallone, Portia sta già correndo. Non accelera. È già in volo. Kimber Rozier prova a fermarla. Non ci riesce. Poi arrivano Naya Tapper, Alev Kelter, Cheta Emba. Tre nomi. Tre tentativi. Tre fallimenti. Portia le supera tutte. Come se il campo fosse troppo piccolo per contenerla. Come se il tempo si piegasse al suo passo. Arriva sotto i pali. Si tuffa. E segna.

È la prima di quattro mete in quella partita. Ma è quella che resta. Quella che viene eletta come la più bella della Coppa del Mondo. Non per il gesto tecnico. Ma per ciò che rappresenta. La velocità e la visione. La potenza e la grazia. Quel giorno, il mondo non guarda solo una giocatrice. Guarda un fenomeno. Uno tsunami che attraversa il campo e la storia. E che, ogni volta che prende palla, fa tremare l’aria.

Belfast, 26 agosto 2017. Il cielo è grigio, come spesso accade da quelle parti. Ma dentro il Kingspan Stadium, l’aria è frizzante. Finale della Coppa del Mondo femminile. Nuova Zelanda contro Inghilterra. Le Black Ferns contro le Red Roses. Due filosofie. Due mondi. Una sola corona. Portia Woodman è lì. Non è il giorno delle sue mete. Non è il giorno dei suoi voli. Ma è il giorno della sua presenza. Quella che non si misura in punti, ma in peso specifico. In ogni rincorsa. In ogni placcaggio. In ogni sguardo alle compagne. 

La partita è una battaglia. 41 a 32. Un punteggio che racconta solo una parte della storia. Perché in campo c’è molto di più. C’è la tensione. C’è la paura di sbagliare. C’è la voglia di vincere per chi ha corso, lottato, sognato. Portia non segna. Ma c’è. Nel primo tempo, quando l’Inghilterra prova a imporre il suo gioco. Nel secondo, quando le Black Ferns ribaltano tutto. C’è nel break di Selica Winiata, che corre 70 metri per la meta decisiva. C’è nel placcaggio su Emily Scarratt, che vale quanto una segnatura. C’è nel modo in cui guida con lo sguardo, con il corpo, con il silenzio. Alla fine, le Black Ferns tornano regine. Cinque titoli mondiali. Un dominio che non è solo tecnico. È spirituale. E Portia? Portia viene eletta World Rugby Women’s Player of the Year. Non solo per le mete. Non solo per la velocità. Ma per ciò che rappresenta. Un’idea di rugby. Un modo di stare in campo. Una freccia che non ha bisogno di colpire per lasciare il segno.

Poi arriva il 2021. O meglio, il 2022. Perché la pandemia ha fatto quello che fa il tempo quando decide di giocare a dadi con la storia: ha spostato tutto. Calendari, sogni, ritmi. Ma non ha spostato lei. Portia Woodman. La marea nera di Aotearoa. La Coppa del Mondo torna in Nuova Zelanda. E già questo basterebbe a scrivere un romanzo. Perché Eden Park non è solo uno stadio. È un tempio. E Portia ci entra come si entra in casa propria. Con il rispetto, con la fame e con il fuoco dentro. Gioca davanti alla sua gente. Nel suo mondo. Nel suo respiro. Segna ancora. Corre come se il campo fosse un tappeto di vento. E ogni volta che prende palla, succede qualcosa. Il tempo rallenta. Il pubblico trattiene il fiato. Le avversarie si irrigidiscono. Come se il rugby, per un istante, diventasse danza. Una danza tribale.

Il 12 novembre 2022, Eden Park non è solo uno stadio. È un teatro. E sul palco, ancora una volta le Black Ferns e le Red Roses. Due squadre. Due mondi. Una finale che sembra scritta da Shakespeare e diretta da Peter Jackson. Portia Woodman è lì. Nel suo giardino. Nel suo regno. Il pubblico è tutto per lei. Ogni bambina con una maglia nera sogna di correre come lei. Ogni sguardo è rivolto a quella fascia sinistra, dove la freccia nera si prepara a scoccare.

Minuto diciotto. Portia prende palla. Accelera. Taglia l’erba come una lama. Passa l’ovale all’interno. E poi… Il buio. Lydia Thompson, l’ala inglese, arriva alta. Troppo alta. Un colpo alla testa. Rosso diretto. Portia esce in barella. Eden Park trattiene il fiato. Come se il cuore del rugby avesse smesso di battere per un istante. Le Black Ferns non si fermano. Giocano per lei. Per la sua corsa interrotta. Per il suo sogno spezzato e ricucito. Vince la Nuova Zelanda. 34 a 31. Una rimonta epica. Una finale che diventa leggenda.

Portia non corre più quel giorno. Ma è ovunque. Nel volto di Ruby Tui. Nel placcaggio di Sarah Hirini. Nel canto della haka finale. Perché ci sono giorni in cui non serve segnare per essere decisive. Basta esserci. Anche solo per un lampo. Con quel torneo diventa la miglior marcatrice della storia della Rugby World Cup. Ma non è questo il punto. Il punto è che Portia non gioca solo per vincere. Gioca per raccontare. Ogni meta è un capitolo. Ogni accelerazione, una poesia. Qualcosa che non si può spiegare. Solo raccontare. Come si racconta il volo di una cometa. Come si racconta il silenzio prima dell’urlo.

Ed ecco il 2025, l’anno in cui il rugby femminile cambia di nuovo pelle. L’anno in cui Portia Woodman-Wickliffe decide che il sipario non è ancora calato. Aveva detto basta. Dopo l’oro olimpico a Parigi, dopo le lacrime, dopo i brindisi. Ma il richiamo del campo è come quello del mare per chi è nato sulla costa: non si resiste. La Coppa del Mondo si gioca in Inghilterra. Twickenham è il palcoscenico. E Portia, 34 anni, torna. Non per nostalgia. Non per gloria. Ma per amore. Per la maglia nera. Per le compagne. Per la sua whanau.

Ha giocato in Giappone. Ha vinto con i Blues in Super Rugby Aupiki. Ha visto crescere le nuove leve. E ha capito che il suo tempo non è finito. Che c’è ancora spazio per un ultimo capitolo. Un capitolo da scrivere con la penna della fuoriclasse.

Nel Pacific Four Series segna sette mete contro gli Stati Uniti. Sette. Come i giorni della creazione. Come le note di una sinfonia. Come le volte in cui il pubblico si alza in piedi, sapendo che sta per succedere qualcosa. E ora eccola lì. Di nuovo. Se chiudiamo gli occhi possiamo quasi vederla. Nel tunnel di Twickenham. La luce che filtra. Il battito che accelera. È la marea scura che si avvicina. Non fa rumore. Non promette spettacolo. Ma chi conosce il mare, sa. Sa che quando arriva, nulla resta com’era. Portia non si ferma. Portia sale, come un'onda impetuosa e quando tocca terra, il campo non è più lo stesso. Perché Portia Woodman non è tornata per chiudere. È tornata per lasciare un segno. Ancora una volta.

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