Breaking News

Il rugby e la complessa questione di numeri e popolarità tra le ragazze italiane

L’estate del rugby femminile italiano non è mai particolarmente entusiasmante, tutto tace quasi sempre dai club e l’attività internazionale è principalmente legata al 7s che raramente ci ha regalato qualche grande soddisfazione. 

Quest’anno però le cose sono un po’ diverse. No, non ci sono grandi colpi di mercato ad illuminare la prossima Serie A e nemmeno la notizia di arrivo di grandi sponsor o della trasmissione delle partite quantomeno in uno streaming decente, però c’è finalmente la certezza che le Azzurre giocheranno il torneo di qualificazione mondiale e lo faranno a Parma, in quello che ormai è diventata la casa della Nazionale Italiana femminile. Prendendo spunto da un’intervista rilasciata qualche giorno fa da Ilaria Arrighetti e Beatrice Rigoni al settimanale francese Actu Rugby, ho provato a fare un po’ il punto della situazione del rugby femminile italiano in generale.

Rugby femminile: la solita questione dei numeri

Guardare il rugby italiano con gli occhi degli altri è semplice e complicato allo stesso momento: il movimento italiano non certo è allo stesso livello di sviluppo di quello francese o meno che mai inglese e anche l’Irlanda, per quanto i due movimenti siano più simili di quello che sembra, appare un po’ più avanti, quanto meno nella popolarità e diffusione di questo sport tra le ragazze, soprattutto a livello scolastico.

Questo si spiega con il deficit di popolarità del rugby in Italia rispetto ad altre discipline. Nelle preferenze delle ragazze sopratutto in età scolastica continua a prevalere la pallavolo, ma dopo il mondiale del 2019 anche il calcio è cresciuto in popolarità attirando l’interesse di molte bambine, il che rende oltremodo complicata la questione del reclutamento. Come sintetizza molto bene Beatrice Rigoni, nell’intervista al portale francese “il rugby è uno sport di nicchia in questo momento”. Purtroppo questa è una verità scolpita nella pietra, si sa molto poco del rugby femminile nel nostro paese e se non fosse per la passione di alcuni giornalisti e blogger appassionati se ne saprebbe ancora meno.

I media italiani non trasmettono, se non rarissime volte (come accadrà per la partite di qualificazione al mondiale, nda) le partite della nazionale, figuriamoci quelle del campionato. Dopo l’esperienza su Eurosport saranno solo gli abbonati a Sky, da settembre, a poter seguire le partite dell'Italia nel Sei Nazioni e (si spera) nella prossima Coppa Del Mondo. Questa mancanza di copertura mediatica tradizionale non aiuta a rendere popolare lo sport tra il pubblico neofita. Almeno per il campionato la via dello streaming, come accade in Francia, Inghilterra ed Irlanda dovrebbe essere praticabile, ma la FIR ha più volte fatto capire che sono i club a doversene fare carico (come avviene per altro negli altri paesi), ma i costi appaiono insostenibili e se non arriveranno “corposi” finanziamenti federali, la Serie A femminile rimarrà spettacolo per pochissimi intimi.

Un campionato piccolo ed eterogeneo con pochi club strutturati

A causa dei numeri ridotti e della mancanza di giocatrici, i club italiani hanno difficoltà a formare squadre XV ed in passato si è assistito alla nascita (e spesso prematura sparizione) di piccole realtà che hanno disputato la Coppa Italia a 7. Se da una parte questo ha potuto portare il gioco femminile più o meno in tutto lo stivale, il numero ridotto di squadre a 15s femminili ha un impatto sul livello generale del campionato, che non è in grado di garantire che poche partite che a livello di intensità, ritmo e qualità di gioco possano rivaleggiare con i campionati di Elite in Francia ed Inghilterra. In passato nel nostro torneo sono transitate giocatrici di grande qualità come le Black Ferns Linda e Aldora Itunu (Red&Blu Roma), Amy Williams (Bologna 1928), la nazionale americana Katana Howards (Colorno) o l’estremo della nazionale svedese Moa Wejle (CUS Roma), cosa che ad oggi appare francamente impensabile.

Nell’Intervista al portale francese, Ilaria Arrighetti, azzurra che milita attualmente nello Stade Rennais in Francia dice: “potremo dire che 'c'è un campionato e mezzo in Italia. Non abbiamo Elite 1, Elite 2 e Federale, ma un’unica Serie A, con un girone meritocratico (le squadre migliori, nda) e tre gironi creati con un criterio geografico.”

Aggiunge Beatrice Rigoni: “È già difficile praticare uno sport a livello amatoriale in generale, ma quando si parla di rugby bisogna avere la fortuna di vivere vicino a un club strutturato come il mio (Valsugana Rugby Padova) o se no, bisogna essere pronti a fare grandi sacrifici per poter giocare”.

Questo è particolarmente vero per i giocatori che non hanno la fortuna di vivere nelle nel nord Italia, dove ci sono le tre squadre, Colorno, Valsugana e Villorba che superano ampiamente le altre, per organico, qualità e strutture del club.  Il livello delle giocatrici italiane è legato anche alle loro condizioni di allenamento. Per Ilaria, ad esempio, le giocatrici francesi hanno un vantaggio sulle nostre: “oltre al gran numero di giocatrici,  qui c’è molta qualità a livello di allenatori, cosa che non sempre avviene in Italia. Avere persone competenti e buone strutture permette è necessario per poter lavorare bene e di progredire”.

In termini di sostegno sociale, la situazione varia a seconda dei club: “nel migliore dei casi, il club supporta le ragazze nel pagare il loro alloggio o nel trovare un lavoro”, testimonia Beatrice, che ha la fortuna di giocare in uno dei migliori club italiani, ma come ben sappiamo nella grande maggioranza dei casi, tutto ricade sulle spalle delle atlete e delle loro famiglie. Ovviamente, viste queste difficoltà, in Italia le ragazze tendono ad arrivare tardi al rugby e a giocare “soprattutto per divertimento, ma non così seriamente”, conclude Ilaria. Un limite che spesso appare invalicabile quando si parla di crescita tecnica e strutturale che sia del club o del livello generale del movimento di club in Italia.

Per questo da diversi anni, alcune azzurre sono andate a mettersi alla prova nei campionati di alto livello in giro per l’Europa, soprattutto in Inghilterra (prima) e nella Elite1 francese (adesso). Attualmente ci sono giocatrici azzurre nello Stade Toulousain (Valeria Fedrighi), nell'ASM Romagnat (Sara Tounesi e Francesca Sgorbini), nello Stade Rennais (Ilaria Arrighetti e Melissa Bettoni) e nel Grenoble (Silvia Turani). Secondo Ilaria, lei ed altre pioniere hanno spianato la strada: “le prime giocatrici italiane, attratte da un campionato di alto livello, hanno aiutato molto. Hanno dimostrato di essere riuscite ad integrarsi bene e di poter competere a quel livello”Questo è ciò che ha spinto Ilaria a tentare l'avventura francese nel 2016, dopo essere arrivata alla fine di un ciclo universitario. Fino ad allora, pur dedicandovi molto tempo, considerava il rugby un'attività parallela allo studio, ma nel 2016 Ilaria ha cambiato prospettiva: “Volevo mettermi alla prova, vedere quanto potevo avvicinarmi a questo sport, quanto potevo spingermi in alto dal punto di vista del rugby”. E così grazie alle connazionali che erano già a Rennes e le danno un appoggio si unisce coraggiosamente al club bretone, senza neppure parlare una parola di francese.

Un problema piuttosto consistente continua ad essere in Italia il sistema di formazione. Non è presente un sistema formativo come il Pôle France o un percorso di Talent ID come in Inghilterra ed Irlanda. Fino agli anni scorsi non esisteva nemmeno un centro federale come Marcoussis in Italia, cioè una struttura totalmente dedicate alle squadre nazionali. Tuttavia, da circa un anno tutta l’attività federale è stata concentrata a Parma e sembra che la “Cittadella del Rugby” sia ormai diventata la casa della nazionale femminile. In generale le azzurre si ritrovano in stage intorno a settembre-ottobre, in vista delle una o due amichevoli che giocheranno nel periodo e poi a metà gennaio, per stare insieme durante il torneo delle Sei Nazioni. Infatti, come sottolinea Ilaria le giocatrici italiane non sono professioniste: “non stiamo insieme un mese altrimenti i nostri datori di lavoro non sono contenti”.  In passato, ma nemmeno troppo (Coppa Del Mondo 2017), ci sono ragazze che hanno perso il lavoro per rappresentare il loro paese in una competizione mondiale. Quest'anno molte azzurre hanno dovuto sacrificare le vacanze per ritrovarsi in stage a Parma a preparare il torneo di qualificazione ai Mondiali 2022 in Nuova Zelanda, che si giocherà durante tutto il mese di settembre. 

Come abbiamo visto, il campionato italiano è totalmente amatoriale, ma di recente, alcune azzurre hanno ottenuto un primo importante riconoscimento: “Da quest'anno abbiamo quella che chiamiamo “borsa di studio” e sudiamo per averla!“, dice Ilaria. Non si tratta di un contratto federale, come per le giocatrici internazionali francesi o inglesi, ma di un aiuto finanziario che. viene concesso a 15 giocatrici che devono soddisfare determinate condizioni, come ad esempio giocare nel campionato italiano. Certo siamo ancora molto lontani dai contratti centralizzati e dal gettone partita in campionato previsto dalla RFU. Da qualche parte bisognerà pur cominciare, magari anche solo a capire se devono essere i club a darsi una mossa oppure ci dobbiamo arrendere all’evidenza che senza i soldi della FIR più di questo è impossibile fare.

Nessun commento