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Di maglie verdi, sconfitte pesanti ed orgoglio infinito: la favola senza lieto fine delle "Gerundine"

Freddo. Ci sono certe giornate che in qualsiasi modo tu le guardi, ti riportano al rugby e non c’è verso di liberarsi di quella sensazione strana. Se chiudi gli occhi ti sembra di sentire il tac tac ritmato dei tasselli, che nervosi battono sul pavimento dello spogliatoio. Se ti concentri ti sembra di avvertire vagamente l’odore di olio canforato che scalda i muscoli, di sentire l'abbraccio dei compagni (o delle compagne).

Oggi è proprio uno di questi giorni. Piove da ore ormai, il cielo lattiginoso si è adagiato sul giardinetto dietro casa, che sembra guardarmi immobile, invitandomi ancora una volta ad affondare i piedi in quelle belle pozzanghere e nel mare di fango che solo noi rugbisti sappiamo amare in maniera tanto viscerale. L’orizzonte biancastro resta qualcosa di indefinito. Chissà perché mi immagino dei pali dietro questa coltre nebbiosa, anche se so benissimo che non ci sono. Oggi, come del resto, in una sequela infinita di giorni (settimane, o anche mesi) non c’è il rugby. O meglio c’è un non-rugby: quello delle bolle, del 6 Nazioni dei professionisti, quello senza pubblico, senza birre in club house, quello delle partite in tv, giocate, ma spente. Eppure oggi è proprio un giorno da rugby, uno di quei giorni in cui l’ovale ed i ricordi parlano. A me lo hanno fatto per mezzo di una foto, trovata quasi per caso mentre archiviavo un vecchio hard disk. 

Una ragazza dietro la linea di meta, che guarda a terra, affranta. Sconfitta, anche se ancora non lo sa. Mi sono soffermato su quella maglia verde, un verde che sa di speranza, di erba soffice (che sui campi da rugby è sempre una specie di miracolo), della mia amata Irlanda. Un colore che qualcuno aveva scelto per provare ad illustrare una favola: quella delle Gerundine. Mi sono ricordato il nome, così all’improvviso: Gerundi Rugby Femminile, “chissà da dove vengono” mi ero chiesto la prima volta che lo avevo sentito. Quella favola però non avrebbe avuto un lieto fine. Il lieto fine nel rugby, come nella vita è un privilegio di pochi.

Incuriosito ho deciso di aprire la cartella, un salto indietro nel tempo: campionato di Serie A femminile 2013/14. Fasciate in quelle maglie verdi, troppo grandi per alcune, troppo strette per altre, ci sono facce sorridenti. Alcune tradiscono un’eccessiva tensione mascherata da concentrazione, su altre un velo di timore. La prima partita di rugby è sempre un misto di emozioni, un’alchimia instabile di gioia e ansie declinate in mille forme diverse. Quel giorno è una prima volta per tante è l’avversaria fa paura. Si chiama Riviera Del Brenta, porta cuciti sulla maglia ben sei scudetti e ci sono giocatrici azzurre, quelle che il rugby lo giocano in un’altra dimensione, quella del 6 Nazioni. Ce n’è abbastanza per sentir tremare le gambe.

Ma le donne che giocano a rugby di paura non ne hanno mai in campo, sanno benissimo cosa devono affrontare prima di entrarci, anche solo per il diritto di farlo. Sanno benissimo che ancora il rugby non si fa scrupolo a gridar loro in faccia che quello non è posto per loro. Le donne del rugby non hanno paura, anche quando sono solo in 16, anche quando quella è la prima partita della loro vita, anche quando sanno che la speranza di vincere è tiepida, come troppe volte accade negli spogliatoi alla fine di un allenamento. Hanno scelto “Chimere” come nome di battaglia, fiere si tengono per mano ed entrano in campo, fiduciose. Insieme. Tanto basta.

La realtà però ama scegliersi i colori, il sogno ben presto lascia spazio ad un giornata scura. Il verde impallidisce di fronte all'esperienza ed alle capacità delle avversarie. L’attacco è pressante, il ritmo veloce e continuo delle ragazze del Riviera del Brenta, travolgono la fragile difesa lombarda. Non manca il coraggio, ma i placcaggi sono pochi, la salita della difesa è incerta. Sarà l’emozione, forse la pioggia, amara, come quella di questi giorni di non-rugby. Sono 85 i punti subiti, in meno di 40 minuti. In ogni mischia, in ogni raggruppamento, se c’è chi tentenna, c’è chi si batte, senza tregua. Senza speranza. Alcune mischie vengono vinte, questo da morale. Spunta qualche timido sorriso, velato di incoscienza. Da una delle rarissime occasioni nei 22m avversari, scaturisce un’azione rocambolesca. Avanzare e continuare ad avanzare, così recita il manuale del gioco del rugby. Le Gerundine lo fanno. In fondo la teoria la conoscono benissimo. Hanno in mano quell'unico pallone che sa di riscatto. Troppo prezioso per sprecarlo, troppo importante per lasciarlo cadere. Ogni mano che lo tocca grida l’orgoglio di esserci e non è una mano, ma un insieme di cuori che sospinge il pallone oltre la linea di meta. L’unica segnata dalle Gerundine nella loro breve storia in Serie A. Un urlo strozzato e gioioso: “noi ci siamo!”. La partita viene interrotta all'inizio del secondo tempo perchè le Chimere scendono sotto il numero minimo a causa del forte colpo in testa al mediano di mischia. Giorgia, che non può proseguire. L’assedio è finito, la resa è imposta ma non subita. Le ginocchia sono piegate, il cuore e la testa no. Si va avanti, perché una rugbista non esce dal campo, devono trascinarla fuori e le Gerundine hanno lottato con tutte loro forze per stare su quel campo.

Avanti, facendo del proprio meglio, questo è quello che insegna il rugby e che la vita ci ricorda tutti i giorni. Quante volte ci siamo sentiti Chimere, sconfitti, stanchi, ma con la forza, pescata chissà poi dove, di fare un altro metro in avanti, un altro placcaggio. La forza di non arrendersi, fosse solo per non darla vinta a chi sorride, perché sapeva già che avremmo perso. Quello che non sapeva è che non ci saremmo arresi. Mai. Dopo il Riviera arriveranno il Monza, Il Valsugana ed il Torino, i punti subiti non si conteranno, 191, 140, 169, 75, un pallottoliere beffardo che non fa sconti. Eppure per 5 domeniche le Gerundine saranno ancora lì, poche, stremate, forse impaurite ma insieme. Tanto basta.

Tra infortuni, partite sospese e la “salvifica” pausa, il girone di andata finisce. Quello di ritorno dovrebbe ricominciare da lì, da dove tutto ha avuto inizio. Il Riviera attende le Chimere, ma attenderà invano, perché le ali non reggono più e l’orgoglio non è abbastanza per volare. Lisa prende il coraggio a due mani, sa che è un pallone difficile quello che ha ricevuto, sa che il colpo che arriverà sarà durissimo. Ci vuole coraggio ad arrendersi, quando vorresti morire piuttosto che fermarti. Quando sai che c’è chi sorriderà perché sapeva, o in fondo sperava, solo per il gusto di avere di ragione. Lisa scrive, se provo a chiudere gli occhi di nuovo, posso quasi vedere i suoi lucidi. Le Gerundine ci hanno provato, ma non ce l’hanno fatta. Hanno arrancato per concludere l’andata, ma il sogno che avevano scelto è stato più grande di loro. Sono rimaste meno di 15, il prezzo da pagare è stato davvero troppo elevato.

C’illudiamo di rovesciare le sorti, e stiamo fuori a lottare. Ma nel momento più grave della crisi bravura e decisione se ne vanno” così Constantinos Kavafis descrive l’agire umano. Un folle slancio proteso verso una vittoria che viene negata, spesso prima ancora che la battaglia infuri. Lisa scrive, racconta chi sono le Gerundine, donne che hanno scelto di combattere una battaglia impari contro avversarie troppo più forti, ma mai irrispettose. Contro un mondo di critiche perché non tutti capiscono il coraggio di chi scende in campo sapendo di non avere possibilità. Donne che, tentando di ergersi dinnanzi alle avversità, hanno scelto di andare incontro ad un futuro che le vedeva sconfitte ad origine, ma non per questo piegate ad un destino già scritto. Inesorabilmente sconfitte sul campo, ma non per questo sconfitte nel cuore.

Come Ettore per amore di un fine superiore si scaglia contro una morte certa e affronta il leone acheo conscio della propria inferiorità, rimanendo saldo nell'idea che il suo sacrificio non sarà vano, egli diverrà, il simbolo dell’amore per i compagni e del sacrificio dell’uomo che non si piega al Fato, ma va incontro ad esso con dignità e onore. Quale immagine migliore per descrivere un/a rugbista. Ettore mostra la via, si inoltra nelle tenebre e porta dietro di sé una scintilla che non illumina la sua di direzione, ma rischiara il cammino per chi verrà dopo. Questi devono essere gli occhi con i quali guardare al futuro, occhi fissi, sicuri, onesti e coraggiosi. Come quelli di Lisa, Federica, Marialuisa, Giorgia, Chiara, Cristina, Lucrezia, Ilaria, Francesca, Antonella, Katia, Alessandra, Maria, Giuliana, Arianna, Marta, Silvia, Letizia, Dalila, Marvin, Marina e Daniela.

Torno a guardare la foto, adesso mi è chiaro che quello sguardo, non è l’immagine della sconfitta. Immagino che sia solo la rappresentazione di un momento, quello in cui si riprende fiato, per poter guardare al futuro con desiderio, con speranza, come l’Ulisse di Tennyson, che nonostante sia fiaccato e indebolito dal tempo e dalla vita, si proietta verso un’ennesima lotta, verso un’ennesima peripezia. Perché i sogni, anche quando sono troppo grandi per essere sognati, meritano sempre il tempo che hanno ricevuto. Perché quella maglia verde ci ricorda che la vita è da sempre una partita troppo dura per essere giocata con leggerezza, ma questo non ci impedisce di provarci fino all'ultimo minuto. Perché sappiamo che perderemo partite e continueremo a giocare. Perché come dice il grande Mirko Petternella: “Adesso so, che si può anche perdere, ma non ci si deve mai arrendere”.



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