C’era una volta un Paese che il rugby femminile lo conosceva. Non lo celebrava, non lo idolatrava, ma lo rispettava. Aveva persino ospitato una Coppa del Mondo, come si ospita un parente lontano: con cortesia, con ordine, ma senza intimità. Eppure, in una stanza che odorava di caffè e verbali federali, qualcuno ebbe un’idea. Non una strategia. Non un piano. Un’idea. E le idee, quando sono buone, non chiedono permesso. Entrano. Si siedono. E cambiano tutto.

Sassenheim, Olanda. Anno 2004. Il cielo era basso, la pioggia sottile, il campo un mosaico di fango e speranza. Non c’erano telecamere, non c’erano influencer, non c’erano hashtag. Solo un gruppo di ragazze che correva, placcava e sudava come se il mondo le stesse guardando. Ma il mondo non c’era. E forse era meglio così. Perché in quel silenzio, in quell'anonimato, stava nascendo qualcosa di irripetibile. Una convinzione: che il rugby potesse essere professionale. Anche al femminile, anche in Olanda. E quando una convinzione è così forte da sfidare la logica, allora non è più sport. È rivoluzione.
Fu in un ufficio senza tappeti rossi né lampadari di cristallo, che qualcuno nella federazione olandese pronunciò la frase che cambiò tutto: "Facciamolo!". Non era una strategia. Non era un piano quinquennale. Era un lampo. Di genio, forse. Di follia, sicuramente, ma anche di grande coraggio. L’idea? Creare la prima nazionale femminile professionista d’Europa. Rugby a sette. La versione jazz del rugby. Più veloce, più aperta, più spietata. Appena riammesso nel programma olimpico. Rio 2016 all’orizzonte. E loro, le ragazze, fino al giorno prima si allenavano tra una lezione di anatomia e un turno in corsia. Ora firmavano contratti. Avevano fisioterapisti, nutrizionisti, analisti video. Ma soprattutto avevano una cosa che nessun budget può comprare: la fede. Perché questo, amici miei, non era un progetto. Era un atto di fede.
Aveva diciassette anni e un cognome che in Olanda diceva rugby da generazioni. Kelly van Harskamp arrivava dal Bassets Rugby Club, lo stesso dove suo padre aveva lasciato l’erba più consumata del campo. Alta, elegante, con una corsa che sembrava una diagonale di danza classica. La chiamavano "The Tall Flying Dutchwoman". E non era un soprannome. Era molto di più. Nel 2011 fu nominata miglior giocatrice di rugby 7s al mondo. Ma non era solo talento. Era ossessione. Due allenamenti al giorno, sei giorni su sette. Una volta, a Dubai, giocò con due costole incrinate. Non lo disse a nessuno. Segnò tre mete. E poi tornò in panchina. In silenzio.
Tessa Veldhuis era un’altra storia. Ex ginnasta, bionda, occhi chiari, sorriso da copertina. Ma quando placcava, il campo tremava. Era il cervello della squadra. Studiava gli avversari come un detective studia le abitudini di un sospetto. Annotava tutto. Dopo il ritiro, sarebbe diventata giornalista sportiva e avrebbe raccontato le sue ex compagne con la stessa lucidità con cui le aveva guidate in campo. Una volta scrisse: "Il rugby è l’unico sport dove per avanzare devi cadere."
Pien Selbeck era la velocità fatta persona. Ala. Partiva e spariva. A Las Vegas, nel 2012, segnerà una meta contro il Canada che avrebbe fatto alzare in piedi tutto lo stadio. Un commentatore disse: "Sembrava una gazzella inseguita da un leone". Ma non era solo corsa. Era istinto, tempismo. Era arte in movimento.
E poi c’erano loro. Le altre. Anne Hielckert, Tessel van Dongen, Marloes van der Schaft. Donne che avevano lasciato tutto per un sogno. Una lavorava in banca, una studiava medicina, una faceva la barista. Ma in campo erano una cosa sola. Un corpo solo. Un respiro solo. Un’idea.
Dubai, 2009. La Coppa del Mondo di rugby 7s. Il sole picchiava come un tamburo africano, il campo era una lastra di calore e adrenalina. L’Olanda, squadra outsider, arrivò ai quarti. Nessuno le aspettava. Nessuno le temeva. Ma il Giappone, quel giorno, imparò a farlo. Ultimo minuto. La Palla arriva a Kelly van Harskamp. Corre. Finta. Si allunga. Meta. Ultimo secondo. Silenzio. Poi esplosione. L’Olanda vince. In semifinale trova l’Inghilterra. Troppo forte. Troppo esperta. Ma le ragazze d’arancio escono tra gli applausi. Non avevano vinto. Ma avevano fatto qualcosa di più difficile: avevano convinto. Non erano favorite. Ma erano belle da vedere. E nel rugby, a volte, anche la bellezza conta.
Tre anni dopo, 2012: le World Series. L’Olanda è una delle sei squadre core. Tradotto: non più comparse. Protagoniste. A Hong Kong, pareggiano con la Nuova Zelanda. Sì, proprio loro. Le Black Ferns. Le invincibili. 14-14. Un pareggio che vale come una vittoria. A Mosca, il capolavoro. Contro la Francia. Partita tesa, fisica, nervosa. Al minuto 10, Tessa Veldhuis riceve palla. Fa una finta che sembra uscita da un manuale di geometria. Si infila tra due difensori. Meta. 21-14. Vittoria. Applausi. Riconoscimento.
Las Vegas, febbraio 2012. Il sole del Nevada non accarezzava: colpiva. Il campo sintetico era una padella rovente, e sopra quella padella si giocava una partita che nessuno avrebbe ricordato. Tranne chi l’ha vissuta. Olanda contro Canada. Le canadesi erano forti, esperte, strutturate. Le olandesi erano giovani, affamate, leggere. Sul 12 pari, minuto tredici, la palla arriva a Pien Selbeck sulla fascia sinistra. E lì, amici miei, il tempo si piega. Pien parte. Brucia la prima canadese. Poi la seconda. Poi la terza. Corre come se il tempo fosse un elastico e lei lo stesse tirando al massimo. Arriva. Segna. Ma l’arbitro fischia. Fuori. Il replay dice altro. Il piede era dentro. La meta era valida. Ma non conta. L’Olanda perde 17 a 12. Nel tunnel, Kelly van Harskamp abbraccerà Pien dicendole: “Hai fatto la meta più bella tra quelle che non esistono.” A volte la bellezza non ha bisogno di conferme. Basta averla vista per poter dire di averlo vissuta.
Londra, maggio 2012. Il torneo di Londra fu forse l'apogeo della squadra. L’Olanda aveva appena perso la finale contro l’Inghilterra. Una sconfitta pulita, onesta, senza alibi. Una di quelle partite che non ti lasciano lividi, ma domande. Marloes van der Schaft, ancora con il sudore che le disegnava il volto, si avvicinò al bordo campo. C’era una bambina. Piccola. Occhi grandi. Teneva in mano un foglio piegato in quattro. Disegnato sopra, un numero 7 e una scritta: ‘Marloes’. La bambina la guardò e chiese: ‘Posso diventare come te?’” Marloes si tolse la maglia. Non con gesto teatrale. Ma con la delicatezza di chi sa che quel tessuto ha assorbito più sogni che sudore. Gliela porse. E disse solo: "Puoi diventare meglio."
Mosca, giugno 2013. Il cielo era grigio come una promessa non mantenuta. Pioveva. Non la pioggia gentile di primavera, ma quella che trasforma i campi in paludi e le partite in battaglie. Quarti di finale della Grand Prix Series. Olanda contro Francia. Le francesi erano più alte, più robuste, più abituate a vincere. Ma le olandesi avevano qualcosa che non si misura: la fame.Tessa Veldhuis, mediana, caviglia fasciata, occhi lucidi. Al settimo minuto intercetta un passaggio che non doveva esistere. Corre. Non corre: vola. Meta. 7 a 0. Il campo esplode. Ma la Francia non muore mai. Pareggia. 7 a 7. Ultimo minuto. L’Olanda attacca. Kelly van Harskamp riceve. Finta. Accelera. Placcaggio alto. Fischio. Punizione. Tessa prende la palla. La guarda. La accarezza e poi calcia un drop impossibile La palla danza nell'aria come una ballerina russa. Palo. Dentro. 10 a 7. Vittoria. Non era una partita. Era una notte. E in quella notte, le ragazze Orange non giocarono a rugby. Giocarono ad essere leggenda.
Il rugby a sette era ufficialmente nel programma olimpico di Rio de Janeiro, 2016. Per la nazionale femminile olandese, non è solo una convocazione. È una chiamata. Una chiamata a giustificare un progetto nato più di dieci anni prima, in un campo bagnato di Sassenheim, tra sogni e fango. Non si trattava di partecipare. Si trattava di dimostrare che l’utopia era diventata ragione. Il biennio 2014–2015 fu una fucina. Allenamenti doppi. Ritiri in altura. Tornei in ogni angolo del mondo: da Hong Kong a Kharkiv, da Dubai a Dublino. Le ragazze vivono in valigia. Dormono in ostelli dove il sonno è un lusso. Mangiano riso e pollo come se fosse haute cuisine. Si curano da sole, si massaggiano tra compagne, si medicano con il nastro e la fiducia. Ma non mollano. Mai.
Kazan, Russia. Estate 2015. Il cielo è terso, ma l’aria pesa. È il torneo che vale una vita. Il biglietto per Rio. Il passaporto per l’Olimpo. L’Olanda parte bene. Batte la Germania con ordine, la Svezia con eleganza. Ma in semifinale trova la Russia. Squadra fisica, veloce, spinta da un pubblico che canta come se fosse una finale mondiale. E forse, per loro, lo è. Le ragazze d’arancio lottano. Vanno sotto. Recuperano. Si rialzano. Al minuto 12, la touche. Una di quelle che hai provato mille volte. Ma stavolta qualcosa non funziona. La palla sfugge. La Russia riparte. Meta. 19 a 14. Fine. Non ci sono urla. Non ci sono lacrime. Solo abbracci. Lenti. Lunghi. Le ragazze restano lì. In piedi. Come soldati dopo la battaglia. Non vinti. Solo svuotati. Tessa Veldhuis, a bordo campo, ha il volto impassibile, ma gli occhi raccontano tutto. Dice solo: “Abbiamo dato tutto. Ma non è bastato.” A volte il destino non premia chi merita, ma chi resiste, e queste ragazze, quel giorno, hanno resistito fino all'ultimo respiro. Ci sono sconfitte che ti insegnano. Altre che ti segnano. E poi ci sono quelle che ti consacrano. Non le trovi nei palmarès, ma nei racconti. Nei silenzi. Nei ritorni.
Kelly van Harskamp era il volto e il simbolo, il faro della squadra. Ma anche i fari, a volte, si spengono. Dopo un torneo in Spagna nei mesi successivi, si ferma. Non per un infortunio. Non per una sconfitta. Perché qualcosa dentro si è svuotato. Guarda il campo vuoto. Le linee bianche. Le tribune deserte. E dice basta: “non ho più niente da dare.” Nessuna conferenza stampa. Nessun post su Instagram. Solo silenzio. Quando un’anima si svuota, non fa rumore, ma lascia un’eco e quell'eco, in Olanda, ancora risuona.
Kharkiv, luglio 2019. Il cielo era limpido, ma nell'aria c’era qualcosa di sospeso. Non era una finale. Non c’erano fuochi d’artificio, né inni nazionali cantati a squarciagola. Era una partita per il terzo posto. Olanda contro Brasile. Ma per chi sapeva guardare, era molto di più. Era l’ultima danza di Pien Selbeck. Trentadue anni. Centinaia di placcaggi. Migliaia di chilometri corsi. E ora, l’ultima difesa da sfidare. Al 5° minuto, la palla le arriva tra le mani. Pien la stringe come si stringe una memoria. Fa un passo. Poi un altro. Il campo si apre. Il tempo si ferma. Segna. Si inginocchia. Non per dolore. Per gratitudine. Le lacrime non sono di tristezza. Sono di pienezza. Le compagne la sollevano come si solleva una bandiera che ha sventolato con orgoglio. L’Olanda vince 21 a 14. Ma il risultato è un dettaglio. Pien si avvicina al bordo campo. Si toglie il paradenti. Sorride. E dice solo: “Ho corso abbastanza.”
Il progetto si chiude. Non con un comunicato stampa. Non con una cerimonia. Ma con una serie di silenzi. I contratti non vengono rinnovati. Le borse si svuotano. Le maglie restano appese. La federazione cambia rotta. Cerca altri orizzonti. Ma qualcosa resta. Qualcosa che non si vede. Che non si tocca. Ma che si sente. Come un’eco. Come un profumo. Come un ricordo che non chiede permesso.”
Oggi, in Olanda, ci sono più di quaranta club femminili. Ci sono scuole che insegnano rugby alle bambine. Ci sono tornei giovanili dove le mete si festeggiano come compleanni. E ci sono nomi che ancora risuonano. Non nei titoli dei giornali. Ma nei corridoi dei centri sportivi. Nei racconti delle allenatrici. Nei sogni delle ragazzine. Kelly. Tessa. Pien.
Pien Selbeck allena al RC Waterland. Ha cambiato ruolo, ma non vocazione. Tessa Veldhuis scrive per una rivista sportiva. Racconta il rugby con la stessa precisione con cui lo giocava. Marloes van der Schaft è diventata fisioterapista. Cura corpi, ma non ha mai smesso di proteggere sogni. Tutte, in qualche modo, portano ancora l’arancione nel cuore. Non come colore, ma come battito. Quelle ragazze non furono solo rugbiste. Furono le narratrici di un’epoca, di un sogno, di un modo di stare al mondo. E quando una storia si trasmette non più solo con una maglia, ma con i racconti, la memoria e le immagini, allora non è più sport. È eredità.
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